Lungo il percorso mio padre mi preparava sempre un piccolo bastone, in caso incontrassimo vipere. “Ricorda, prima un colpo in mezzo al corpo e poi uno alla testa”.
Avrò avuto otto o nove anni quando uccisi la prima povera malcapitata che si crogiolava al sole. Il sentiero si inerpicava sull’Appennino per circa sette chilometri.
I miei genitori mi insegnarono a procedere adagio, a prendere il passo, come dicevano loro.
Dopo l’ultima salita tra i fitti castagni appariva di colpo il prato verde e la casa, bianca e silenziosa.
Non avevamo macchina, non esistevano telefoni, eravamo senza elettricità, lontani dal mondo per quindici giorni. Nei pomeriggi assolati stendevamo vecchie coperte grigie sull’erba e ci sdraiavamo a prendere il sole.
Guardavo il cielo azzurro in mezzo al silenzio. Ogni tanto qualche aereo, in alto, ronzava come un calabrone, un piccolo insetto nel cielo che sembrava, anche lui, impigrire nell’ozio di quelle ore.
Un giorno mio padre trovò un grosso rospo sotto una pietra e io, inorgoglito dall’uccisione della vipera, volevo ammazzarlo. Mio padre mi spiegò dolcemente che era una brava creatura e che non bisognava mai uccidere, se non era necessario.
Ma io approfittai della sua assenza per trapassarlo con la punta del mio bastone. Quando mio padre lo scoprì non disse nulla, mi lanciò solo una lunga occhiata addolorata.
Lo sguardo che Dio posò su Caino quando scoprì che aveva trucidato Abele.
Cucinavamo il pranzo sulla stufa a legna. Quando era pronto appariva, misteriosamente puntuale, il cane dei contadini che vivevano a tre chilometri da noi. Mio padre, ogni giorno, si stupiva della sua precisione elvetica.
Il cane, occhi gialli e pelo arruffato, lo guardava ridendo, mentre roteava la coda come un’elica, invece di scodinzolare normalmente. Forse era per quello, o per la sua espressione da pagliaccio che si chiamava Ridicolo. Mio padre gli preparava il cibo dentro una scodella, si guardavano come ad augurarsi buon appetito e poi sillabava il suo nome “RI-DI-CO-LO!” Solo allora il cane, delicatamente, consumava il pasto.
La sera, accanto alla brace della stufa, giocavamo a carte.
A volte cantavamo canzoni.
Una notte mia sorella fu svegliata da un cigolio. Dalla finestra, illuminati dalla luna, spiò a lungo due scoiattoli giocare sul dondolo. Io dormivo, e non vidi nulla.
O forse, il rospo ucciso mi negò questa grazia.
Si dice che gli allevatori di cavalli arabi in antichità percorressero distanze infinite, quando venivano derubati dei loro esemplari, non tanto per riprenderli, quanto per comunicare ai nuovi proprietari le loro ascendenze, perchè non andasse perduta la linea di sangue.
Forse è per questo che, stanotte, scrivo queste parole. Torno indietro nel tempo, un viaggio interminabile, a rintracciare quel ragazzino con la maglietta blu e il cappellino in testa, per dirgli: “Non dimenticare, conserva tutto, ogni cosa, ogni gesto, ogni filo d’erba, ogni singolo attimo felice. Presto, di questi giorni, ti resterà solo il ricordo.”
Il bambino alza gli occhi a guardarmi - quel lungo sguardo addolorato che mio padre mi lanciò quel giorno - e risponde, serio “Io ricordo tutto. Sei tu quello che cerca in ogni modo di dimenticare.”
Non so chi di noi sia più triste per l’altro.
La casa, il prato, il cane, il rospo e mio padre.
Svaniscono, insieme all’ultimo sorso di vino.
La colpa, quella rimane.
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