domenica 28 febbraio 2021

IL MIRACOLO



Dopo il miracolo si ritrovò strattonato da mille braccia, mille voci che urlavano spingendolo, mille mani che laceravano le bende per sottrarre una stoffa di prova, 

a divenire reliquia di quel preciso momento.

La sera portò tranquillità, nella casa finalmente deserta.

Le sue sorelle avevano cucinato una zuppa e lui si cibava con lente cucchiaiate.

Il suo primo pasto nel primo giorno della sua nuova vita.

Una tristezza inspiegabile lo prese e lo tenne con sé.

Marta e Maria lo guardavano, senza parlare.

Ancora non comprendeva come fosse accaduto, e l’artefice del miracolo se ne era andato via quasi subito con i suoi accoliti. 

Gli restava quel ronzio nelle orecchie e la sua voce che lo chiamava indietro, da molto lontano.

Si ricordò che doveva seminare il campo e l’appunto lo nauseò: si era ammalato, si era preparato a morire, era morto. Ed ora doveva tornare a seminare la banalità del quotidiano vivere.

Qualcosa lo irritava profondamente. Gli aveva rubato la morte, a questo pensava.

Lo aveva richiamato indietro per dimostrare di cosa era capace, estraendolo, marcito, dal proprio sepolcro per consegnarlo all’attesa di un nuovo sepolcro senza neppure disturbarsi a dargli una risposta, la risposta a tutte quelle domande che aspettava di porgergli da sempre, dalla prima volta che si incontrarono.

Lui stava vangando il podere quando quella figura sedette sul muro di cinta, guardandolo come un bambino osserva una formica indaffarata.

Adesso capiva che già allora lui aveva stabilito tutto, nella malata apologia di sé stesso.

Era stato ingranaggio nel suo vasto e folle disegno, la comparsa ideale in quel gioco di prestigio, per la letteratura sinottica a venire.

Ah, se solo avesse potuto disordinare le pagine dei suoi Vangeli! Se avesse potuto ritornare nel loculo, sordo alla sua chiamata!

Ma non è concesso rifiutare il dono di un dio, e comunque era inutile.

Sarebbe rimasto per sempre e per tutti Lazzaro Il Risorto, continuando a zappare la terra.


Lui ritornò per la cena in suo onore, Lazzaro sedeva alla sua destra, sorridendo come si conviene a chi è assioma dell’esistenza di Dio. 

Intravedendo gli sguardi corrucciati dei sacerdoti del Tempio intuì quale sarebbe stato l’epilogo.  

Riprovò il gusto di vivere nel tramare la sua partecipazione alla folla che grida: Barabba!

La sua vendetta contro Dio.

Ma, forse, pensò, lui aveva previsto anche questo, quando sedette sul muro di cinta, con quel suo lieve sorriso, osservandolo come si osserva un piccolo insetto. 

SALGARIANA



Che poi, a pensarci bene, tutto questo bisogno di incasellare anni e date, e momenti, in un ordine cronologico preciso, si incaglia nelle secche della nostra memoria. 

Abbiamo avuto tutti, suppongo, un certo periodo fuori dal tempo, una specie di paradiso terrestre. 

Il mio fu una estate a Rapallo, in un parco vicino al mare, ma non voglio ricordare quando.

Avevano appena allestito un castello e una area giochi per bambini, fra alberi secolari che donavano una verde penombra nella calura di agosto. 

Fu chiaro da subito chi fosse il capo della nostra banda. 

Lei, con i suoi pantaloncini rosa e le lunghe gambe da tedesca e i suoi capelli biondi e quell’italiano germanizzato, ci comandava tutti per diritto naturale. 

Anche la banda nemica era avversaria solo nella segreta speranza di essere notata da lei. 

Lei, con la sua camminata marziale e gli occhi più azzurri del mare di primo mattino, e la consapevolezza di essere unica. E desiderata.

Quel giorno eravamo pirati contro corsari. 

Lei svettava con il suo cappello nero con teschio bianco e una benda sull’occhio sinistro. 

La missione era proteggere la mappa del tesoro dal nemico, un foglio tracciato a pennarello che solo lei sapeva dove era nascosto. 

Io le giravo sempre intorno, come un pianeta ruota intorno alla sua stella. 

“Marinaio! Mi sarai sempre fedele?” mi chiese mentre mi puntava al mento il suo bastone. “Sempre, sempre, mio capitano! Fino alla morte!” 

Ero un bambino che aveva già letto tutta l’epopea salgariana, in edizione annotata, per giunta, e con prefazione di Pietro Citati. 

Sapevo bene il mio destino. 

L’avrei amata disperatamente ed inutilmente, e mi sarei immolato per lei, come i personaggi minori de I Pirati della Malesia. 

Chi se ne fregava delle Perle di Labuan con cui giocavo sulla spiaggia, tutte moine, bambole e orecchini. Io avrei desiderato, invano e per sempre, solo lei, la mia piratessa impavida, il mio capitano dalle lunghe, bellissime gambe, dagli occhi irresistibili e dalle labbra imbronciate. 

Si fermò un secondo a squadrarmi, io non riuscii a sostenere il suo sguardo.

“Vieni con me” mi ordinò concisa, e mi trascinò dietro un grande ippocastano, lontano dagli altri.

“Vuoi vedere la mappa?” “Certo, Capitano” le risposi balbettando. 

Le spalle appoggiate al tronco, spinse il bacino in avanti, abbassando con i pollici la vita dei suoi pantaloncini e del costume, sotto.

Il foglio di carta era nascosto là dentro, ma io fui folgorato dal suo sesso che lei mi mostrava ridendo, senza paura. 

Il tempo si fermò, insieme al mio cuore. 

Avevo di fronte l’assoluto, il principio di ogni cosa, la vita stessa. 

Quella fenditura di conchiglia che schiudeva ai miei occhi imprigionava tutti gli oceani del mondo. Io, frastornato, ne ascoltavo il ruggito.

Capii più cose in quella epifania di quante mai ne avrei afferrate nelle letture di una vita, ed ebbi la consapevolezza, in quel momento, che avrei consumato anni nel cercare di decifrare quella mappa. 

Capii che esisteva un Bello, assoluto, inarrivabile, indicibile, eppure così delicato, in costante pericolo per la sua stessa natura. Perché è facile odiare il bello, specie quando sai che non è destinato a te, e provai pietà per la banda avversaria, che la detestava solo perché non riusciva ad amarla da lontano, senza possesso, e una serena tristezza mi prese, mentre guardavo quella albicocca acerba, mormorando: “Grazie, mio Capitano”.

Qualche volta la sogno, ancora. 

Ci incontriamo per caso, ormai quasi vecchi, ci riconosciamo a fatica. 

Prendiamo insieme un caffè, parliamo di lavoro, di niente. 

Di colpo ricordo che siamo in un sogno, e le dico: “Capitano, vorrei rivedere la mappa del tesoro” Lei sorride e mi svela quel foglio segreto.

Io guardo, mi perdo, e ringrazio.


sabato 27 febbraio 2021

DISTOPICO



Topolino è in piedi, solo e impacciato sulla piazza della Cattedrale. 

I pochi passanti lo evitano con occhiate torve, lui cerca di attirare l’attenzione di un bimbo, agitando le sue buffe, grandi mani guantate a salutare il piccino che contraccambia con uno sguardo duro di disprezzo. 

Non sa che fare, Topolino. 

Dondolando la sua testa di gommapiuma con grandi orecchie tonde suppone che i suoi colleghi Topolini di Disneyland se la passino molto meglio. 

Lui voleva girare il mondo, che immaginava meraviglioso e festante come il castello della Bella Addormentata, così convinse Pippo a viaggiare insieme a Pluto. 

Le cose andarono male. In una città che nemmeno ricorda Pippo si prese una bottigliata in faccia da un tifoso ubriaco e Pluto fu investito da un’auto qualche giorno dopo, mentre facevano l’autostop. 

Topolino lo vide morire sputando sangue e denti, mentre le sue goffe mani cercavano di rimettere insieme quelle lunghe, magre zampe smembrate. 

Quella notte lui e Pippo, bendato come Lawrence d’Arabia, lo seppellirono ai bordi dell’autostrada: due grottesche creature con badile illuminate dai fari delle automobili dei pendolari. Poi Pippo caracollò via gorgogliando lamenti come in un cartone animato.

Topolino se ne sta ai bordi della piazza. 

Un bambino dislessico tira la giacca della madre “Guarda! E’ Tolopino!” Lei, distratta, fa una foto con lui e il piccolo, e se ne va.

Topolino li saluta, fingendo di essere parte di qualcosa, strascicando le sue buffe scarpe gialle sul selciato. 

Si rammenta della sua infanzia, un trovatello lasciato ai bordi di Eurodisney 5, e internato, come da prassi, nella Casa dei Topolini. 

Ecco il vecchio maestro, le grandi orecchie nere flosce per gli anni, che cantilena le lezioni della buona accoglienza, ecco il cortile dove giocavano vestiti da Tip e Tap, e la recita annuale con il discorso del Paperone della Banca Centrale, la maschera arcigna e il completo doppio petto: “Siate produttivi e disponibili. Propositivi e solari, e, chissà, un giorno potrete viaggiare sulle nostre navi da crociera.”

Viaggiare... 

Una volta, i Topolini che fuggivano venivano ripresi e processati per inadempienza contrattuale. Poi capirono che era meglio lasciarli vagare, randagi e soli, a testimonianza che i sogni son desideri solo entro i cancelli delle loro Gmbh.

Se almeno ci fosse la sua Minnie. Ma era stata assegnata ad un nuovo comprensorio sperimentale, accoppiata con un Gambadilegno malinconico e taciturno, allo scopo di creare un nuovo parco tematico trasversale, più moderno e politicamente corretto. 

Si erano congedati su una panchina del nuovo Trans Disney, tutti e tre rigidi e seduti composti per le fotografie. 

Gambadilegno, in canottiera, una birra analcolica in mano, la testa china mormorò che dovevano andare, ora. Rimase seduto a guardarli allontanarsi mentre la banda festosa suonava “Topolin, Topolin, viva Topolin!” 

Fu allora che decise di andare via. Lui ce l’avrebbe fatta. 

Avrebbe sfilato per le vie delle più belle città, e la gente avrebbe applaudito, mentre lui salutava e faceva inchini.

E invece era finito a supplicare sorrisi e spiccioli.

Si è fatto tardi, nella piazza. 

Lampioni accesi, qualche risata di donna, per un altro pubblico, per uno svago da adulti. Topolino non può più restare, due guardie, manganelli neri e occhiali a specchio si stanno già avvicinando. 

Correndo impacciato nel suo costume si scopre a pensare che non sa, di preciso, quanti anni abbia.

Quanto tempo gli resta, ancora, da nascondersi dentro quella testa di topo, quanti anni, ancora, da fuggire, come un ratto.

venerdì 26 febbraio 2021

IPOTESI

Diciamo infinito ciò che non sappiamo contare: 

il numero dei passi che ci ha allontanato da chi eravamo, 

le lucciole nel buio di una lontana notte d’estate, 

le parole sussurrate da una donna di cui non ricordiamo più il sorriso, 

le rette parallele che corrono e corrono, senza mai convergere, 

il simulacro inerte della nostra figura, inutilmente replicato tra i due specchi opposti.

Infinito è quel luogo ove riponiamo ordinatamente quello che non riusciamo a capire e cataloghiamo in atto burocratico nell’archivio del non necessario.

E laggiù, l’anima protestata come un assegno scoperto, ride e piange, piange e ride, nella filigrana di ipotesi di quello che siamo, di quello che avremmo potuto essere.

giovedì 25 febbraio 2021

LA MIA VITA, IN SETTEMBRE



Il vento leggero di Tramontana rischiara di vetro ogni angolo.

Il mare ammutolisce, si fa lago.

L’ardesia dei tetti impensierisce nell’inchiostro blu e nero delle sere che anticipano.

Mi chiedi notizie, di lui, di lei, di loro.

Mi racconti il tuo viaggio, mi rimproveri le assenze: dobbiamo proprio cenare insieme, uno di questi giorni, mesi, anni.

E cosa leggi, ora, cosa scrivi.

Ridi delle mie goffaggini e rimproveri bonariamente il mio abbigliamento sciatto, i pantaloni gualciti.

Ci promettiamo incontri e rimpatriate con lui, lei, loro, sulla scia dell’estate che si allontana.

Più che di orizzonti adesso abbiamo desiderio di ricordi: è usanza del mese.

 

La friggitoria  nel portico oscuro ha cambiato l’olio alle vecchie padelle e festeggia l’evento offrendo un cucullo alla gentile clientela in fila per ricevere il fritto, come ostia consacrata, come memoria delle memorie di altri Settembre trascorsi.

Ci disperdiamo nei vicoli ingarbugliati che fuggono il cielo, ognuno solo, nella illusione di essere molti.


mercoledì 24 febbraio 2021

PUGAINO



La sua forma a punto interrogativo mi ricordava ogni giorno di chiedermi che cosa ci facessi, io, là in mezzo.

La roncola era l’accessorio essenziale del nostro lavoro, ma tutti la si chiamava pugaino, come da dialetto locale sancito.

La si portava dietro la schiena, agganciata al supporto di ferro che si infilava nella cintura dei pantaloni e dal nome ancor più poetico: poveruomo.

Così, il punto interrogativo affilato era sospeso alla vita del povero uomo.

Con il pugaino ci sollevavi i tronchi sramati, oppure lo usavi per arrampicarti sugli alberi alti, piantandolo sul fusto come scalino.

In ultimo, non era neanche male per risolvere impicci, come una vipera che sbuca da una fascina di legna o un cane rabbioso che si fa troppo vicino.

Lo scatto secco, quel suono metallico che produceva uscendo dal poveruomo, era la canzone ritmata delle nostre giornate. Era la domanda incessante e e monotona sul nostro essere lì, ad ansimare tra un fosso di rovi e un dirupo, tagliando alberi.

Le nostre mani portavano i segni delle ingiurie del clima e della natura.

Guardo le mie dita di oggi, nel tenere la penna, e mi sembrano esangui appendici, 

estranee nel ricordo di quello che erano, indurite dai tagli e gonfie per le spine di acacia.

Il tempo è passato, e, di allora, ho ricordi confusi, lampi di immagini come memoria sensoriale, un animale che tiene traccia e dolore delle ferite subite.

Ma quel pugaino, che si interroga sul suo essere al mondo, incastrato tra i rami, ancora resta appeso alla mia cintura, alla mia vita.

Ancora la domanda scatta dal poveruomo che sono, nel suo canto di ferro, e ancora non trova risposta.


INCUBO




Mi ritrovo in un letto d’ospedale, esangue e sudato. 

Sono alla fine dei miei giorni, gli ultimi attimi della mia vita, e realizzo di averla dissipata in scelte sbagliate, vizi, ipocrisie e paure.

Il dolore di questa epifania è lancinante, insopportabile.

Mi sveglio terrorizzato nel calore umido di una notte estiva.

Una ondata di sollievo mi pervade: non è ancora finita.

“Grazie a Dio” mi dico “mi resta ancora il tempo per sprecarla, la mia vita!”

martedì 23 febbraio 2021

VORREI



Tutte le parole dette. Tutte quelle ascoltate.

Mi siedo, accendo il toscano.

Non c’è niente di nuovo, questa notte, soltanto io e te e i nostri racconti già ruminati e digeriti.

Il difficile, alla nostra età, è mettere a fuoco gli oggetti, leggere un menù, o le linee confuse del nostro futuro strette nel palmo della mano.

Un amico mi telefona. E’ in difficoltà e io non so come aiutarlo. 

Spio dalla finestra le case della gente, ognuno è chiuso in una stanza, sotto una lampadina a guardare oltre una finestra che affaccia ad altre case, altre luci.

Quando mi dici che dovrei bere meno, sorrido. 

E’ che vorrei vedere più di quello che vedo, e scriverne meglio.

Vorrei essere un uomo migliore, per me, per te, per il mio amico. 

Vorrei, per una volta, dire “Ci sono io, non c’è problema”.

Vorrei, vorrei… senti come scivola, compiaciuto nella sua impotenza, il condizionale, come pervade la stanza, sotto la lampadina. 

E se ne va, da appartamento ad appartamento, a rincorrere altre speranze, dentro altre teste.

Le lampadine si spengono, i desideri vanno a dormire, resta un lampione che sembra uscito da un quadro di Magritte.

Può darsi che noi tutti si fluttui a mezz’aria, contro il cielo di settembre,

incapaci a volare, stanchi di camminare.

E restiamo lì, a galleggiare appesi ai nostri sogni, palloncini colorati trattenuti dallo spago dei nostri vorrei.


TRAMONTO



Fu nel tardo autunno 2017 che tutti capimmo che l’inverno e il freddo non sarebbero mai più arrivati.

Le giornate si distendevano uguali, assolate e pigre - gatti che si stiracchiavano al sole - mentre le persone si inviavano fotografie di marine assolate, spiagge bianche e Campari soda in evidenza.

Una tinta irreale copriva i lunedì mattina. Manager e avvocati si dirigevano agli uffici in occhiali da sole griffati, camicie rosa confetto e orologi dalle plastiche fluorescenti. 

La leggera ebrezza del caldo fuori stagione si respirava come una sostanza psicotropa, e tutti si sentivano piacevolmente sciocchi, nelle foto su Instagram.

Persino Equitalia recapitava raccomandate in colori sbarazzini.

Un lieve sentore di dolce stupidità permeava ogni azione, in una estate novembrina.


Iniziò con gli alberi dei viali cittadini: grasse foglie verdi si staccavano dai rami senza una ragione.

Un richiamo più antico le portava a precipitare al suolo, nello sfavillare dorato del mezzogiorno.

Poi, anche gli uomini seguirono l’esempio. 

Dai grattacieli più sfarzosi ai casermoni di periferia, le persone iniziarono a precipitare, lordando le strade come frutta matura, il rosso sull’asfalto, polpa e succo di una stagione marcita. 

I notiziari non facevano verbo di quanto accadeva, tutti presi dalle dichiarazioni dell’ultima stellina televisiva, dall’intervista al nuovo cantante abbronzato e tatuato.

Una nota giornalista di tendenza, una sera, dopo il rinfresco a Terrazza Martini, con una risata chioccia e il bicchiere di Tequila Sunrise in mano, oltrepassò il parapetto e si gettò di sotto, subito seguita da una dozzina di aitanti ragazzi in smoking che ridevano e ridevano mentre cadevano, quasi fosse un tuffo in piscina. 

Centinaia di persone twittavano appuntamenti su spiagge semi deserte, per nuotare al largo, in un mare placido, fino a sprofondare nell’abisso.

Altri, più politicamente corretti, organizzavano girotondi fanciulleschi che procedevano sempre più veloci, fino a smembrarsi con ferocia.

Unici a resistere al massacro, i croceristi. L’imperturbabile svolgersi delle loro giornate insensate in mare li proteggeva da una natura impazzita e continuavano nelle loro serate danzanti. 

Dai moli deserti del porto si potevano ascoltare orchestre brasiliane che agitavano maracas per ottuagenari ciechi e sordi.

Il mondo, lentamente, declinava, in un fulgore di luce e vento tiepido.

Quando un giornale gossipparo pubblicò la fotografia di Noam Chomsky in piscina che si abbronzava con uno specchio di stagnola, un braccialetto d’oro al polso e un sorriso senza anima, realizzammo che la fine stava arrivando, sulle note di una versione remix di Despacito.

I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse erano una boy band che ammiccava, muovendo il bacino.

  

Molti anni dopo, gli alieni atterrarono, nel caldo soffocante di un luglio infinito. 

Erano stati chiamati da orgogliosi messaggi di intelligenza della razza umana, ma trovarono solo qualche nave alla deriva, vecchie riprese di feste in costume, litigi televisivi, stralci di filmati porno casalinghi. 

Le esili creature ristettero, perplesse e tristi nel panorama assolato, come statue di Giacometti.

Lontano, un cuculo cantava.

Ripartirono, e le loro navi lasciarono scie cremisi, come nuvole al sole di un tramonto inconcludente.

L'UNIVERSO, DIO E IL MIO TOSTAPANE



Ho comperato un nuovo tostapane su Amazon. 

Diciannove euro e novanta. 

Costava ventotto e ottanta, ma c’era una offerta. 

Che poi, mi domando, ha un significato la balbuzie dei numeri decimali, monotoni nel tartagliare la cifra? 

Quando lo hanno consegnato stavo leggendo un articolo di un qualche astrofisico che tentava di spiegare il perché e il percome il nostro cervello non riesce neppure a immaginare la vastità di questo universo. 

Ho inserito la spina nella presa, ma i piccoli, delicati pulsanti a Led non ne volevano saperne di accendersi. 

Soltanto un’ora dopo ho scoperto che bastava tirare giù la leva per tostare le fette di pane. Ridendo tra me ho pensato: non solo non afferro la grandezza dell’universo, ma neppure riesco a comprendere l’uso di un semplice elettrodomestico. 

Quella notte, la sete dovuta ai troppi superalcolici mi ha portato in cucina, a bere acqua, fredda e ostile, nella luce elettrica delle quattro del mattino. 

Il tostapane, nella sua carenatura bombata in acciaio retrò, baluginava di un freddo riverbero. 

Ho inserito il pancarrè, ho aspettato che il ronzio delle resistenze dorasse la superficie, il fragrante sentore artificiale del pane abbrustolito.

Intanto pregavo: caro tostapane Amazon in offerta limitata, brucia questa infelicità a prezzo fisso che ho dentro le ossa e in quella piccola scatola che, presuntuosamente, chiamo anima, e fammi credere che il mondo è bello così, con il suo marketing di disperazione a cifra scontata. 

Ultima offerta al ribasso! Soddisfatti o rimborsati! Leggete le recensioni degli altri clienti! 

Altri disperati come me, svegli poco prima dell’alba, a non capire un cazzo dell’universo, e del perché sono in piedi a guardare un tostapane, dopo troppi bicchieri, troppe parole, e un solo silenzio, quello del nostro cuore.

Il rumore secco dello scatto meccanico ha portato le fette abbrustolite alla luce fredda dei faretti alogeni. 

Lontano, il disperato frenare di un’auto, un gabbiano che grida, una porta si apre e qualcuno scende le scale. 

Ho mangiato quel pane, come un’ostia. 

Ho cercato ancora, disperatamente, di sbranare quello che non so, che non capisco. 

L’Universo, Dio, questo tostapane, e anche me stesso.

LE RONDINI



Come le rondini, che un mattino senti garrire sulla tua testa, e scopri di essere giovane.


A mezzogiorno in punto arrivavano i comunali, con i loro buoni pasto, lo sguardo infastidito e quell’aria di chi vuole farti credere che va di fretta. 

Poi entravano i dipendenti degli uffici privati, spedizionieri, agenti di shipping, e i professionisti e gli artigiani.

Avvocati altolocati condividevano battute e opinioni calcistiche con fabbri e falegnami.

E non scordiamo la parte intellettuale, direttori di musei, pinacoteche e giovani artisti dal brillante futuro, oscurato dalla penombra del vicolo. 

E noi, a trottare con piatti e bicchieri, in quella bolgia di varia umanità, che, per una mezz’ora, era costretta a dimenticare rango e grado, nella democratica coda di chi aspetta il suo turno al tavolo. 

Ero sprezzante e caustico, che si sapesse. “Ma lui ha più ravioli di me!” “Non li conto con il pallottoliere.” “La sua crostata è più grande!” “Non la tagliamo con il compasso.” 

Avevamo settanta/novanta persone da sfamare in due ore, non c’era spazio per il contraddittorio. Un giorno due svampiti turisti tedeschi lasciarono gli zaini sopra la botola che dava in cantina. 

Li spostai per due volte. La terza, aprii la porta e li scaraventai nel vicolo. 

Tutto era un latrato, un ordine, una battuta.

Lui arrivava al culmine del caos. La sua pancia prominente e la fisarmonica lo precedevano. 

Io spegnevo la musica, gli porgevo un bicchiere di vino, e lo lasciavo suonare.

Orfeo placava le belve, me per primo. Gli occhi socchiusi, la bocca piegata in una smorfia di ribrezzo, iniziava la musica, e tutti facevano silenzio, le teste chine sui piatti. 

Improvvisamente quella moltitudine di commensali rancorosi e permalosi si mostravano per quello che erano, quello che siamo tutti. 

Piccoli uomini che consumano un pasto, mentre la vita ci consuma.

Più beveva e più suonava bene. 

Un giorno arrivò già ubriaco dal suo giro di locali e attaccò “Ma se che pensu” orribile canzone cliché genovese. La stravolse fino a farla divenire una passacaglia di Bach, qualcosa di metafisico e irreale, che convinse anche i più riottosi clienti ad un applauso, timido e sincero.

Mi avvicinai per offrirgli il bicchiere, ma lo rifiutò, e, quel giorno, non passò tra i tavoli a chiedere compensi. 

Uscì dalla porta e - forse è una immagine che ho incollato dopo - mi sembrò più alto, e più fiero.

Non ricordo il primo giorno che arrivò al mio locale, e non ricordo quando scomparve. 

Non so come si chiamasse, chi fosse, quale la sua fine. 

Nelle trattorie dell’ora di pranzo tutto è un istante, ripetuto infinite volte. 

Rimane per sempre solo nella memoria.


Come le rondini, che non ricordi mai il giorno preciso del loro arrivo. 

Che non ti accorgi subito di quando se ne ne sono andate.

Arriva il tuo autunno, e ti vengono a mancare.

MOSCHE E GIUDICI



Sulla busta di biscotti c’è scritto che l’azienda si impegna per un mondo più buono.

Al momento, il mio mondo è quel pianeta nero e fumante che ho sotto gli occhi, il cerchio del mio caffè del mattino. La testa mi fa male e i ricordi sono confusi, come sempre, quando ho bevuto troppo. Conosco la ginnastica riabilitativa che devo fare, e ripercorro la scorsa giornata, sorseggiando la colazione.

In mattinata ero in tribunale, per una stupida causa di successione, una lite tra parenti per qualche spicciolo. Siamo tutti riuniti nell’ufficio del giudice, un personaggio collerico e bisbetico, e, nel momento in cui devo firmare il documento, il telefono squilla. E’ una chiamata importante e rispondo senza pensarci, ma vengo redarguito dal mio avvocato. Allora interrompo la conversazione, ma, nella foga, mi firmo con il nome della persona che mi stava cercando. Imbarazzato, cerco di spiegare l’accaduto, ma il giudice dà di matto, urlandomi contro. Io non la prendo bene e replico “Mi stia a sentire, trovo che lei sia un…” “FAUSTO!!!” L'urlo potente e disperato del mio legale interrompe una mia prossima incriminazione di oltraggio alla Corte. Poco più tardi, in separata sede, con parole accorate, mi redarguirà con passione “Ma che ti succede? A volte mi sembra che tu non capisca quale sia la realtà”. So che ha ragione. 

A mezzogiorno una coppia gentile viene a pranzo al ristorante. Dopo avere mangiato mi confessano che sono entrati perché amano leggere le risposte che lascio alle recensioni sul mio locale. Si sono fatti l’idea di una persona garbata e sensibile. Mentre mi parlano un tavolo di clienti abituali continua a battere il coltello sulla brocca di vino vuota, come fastidiosa richiesta di un nuovo mezzo litro. 

“ALLORA! POTETE ANCHE ALZARE IL CULO E PORTARMI LA CARAFFA!!” 

Urlo di colpo. La coppia che mi credeva una persona sensibile scolora di colpo. 

Nei loro occhi leggo tutta la delusione nel constatare che io non sono quello che si aspettavano.

In serata due vecchi amici, un editore milanese e un direttore di teatro, verranno a cena da me, in compagnia di uno scrittore entomologo svedese, dopo la presentazione del suo libro. L’attesa è lunga e comincio una cospicua serie di aperitivi. Quando arrivano, alle 22:30, sono praticamente sbronzo. 

Faccio conversazione con lo scrittore, parlando di insetti. 

Ad un certo punto lui tira fuori dalla tasca una scatolina argentata che racchiude una mosca, fissata con uno spillo, le ali allargate. L’addome dell’insetto è a strisce gialle e nere, simile a quello delle api, un trucco per sembrare pericoloso. 

“Conosco questo tipo di mosca!” esclamo. Lo scrittore mi sorride, malizioso.

“Già! E’ un insetto che vuole sembrare qualcun’ altro. Ma, d’altra parte, non lo facciamo tutti?”

Quando vanno via è l’una di notte. Il mio Pub preferito è ancora aperto, entro e bevo ancora.

“Siamo tutti a sforzarci di sembrare qualcun’ altro", biascico al barista, “e neanche sappiamo bene chi siamo, davvero”.

Tornando a casa penso che, tutto sommato, è stata una giornata come le altre, e mi domando se per tutti è così, oppure se solo a me succedono queste cose. 

E poi mi chiedo se, in definitiva, sono al colmo di una enorme serie di accidenti, o se posso dirmi fortunato di tutti questi inciampi e cadute.

La notte è serena e l’aria è dolce. Mi fermo in mezzo alla strada. 

Qualcosa vibra nella mia tasca.

Estraggo con dolcezza la scatolina d’argento che ho rubato allo scrittore svedese. 

La mosca ha un lampo iridescente negli occhi a prisma che sembrano fissarmi. 

Con molta cura la libero dallo spillo che la trattiene. 

Le delicate ali trasparenti iniziano a tremare, e silenziosamente si alza in volo.

Mentre la guardo andare via le sussurro “Non tornare troppo tardi, domattina. Ci aspetta un’altra giornata da vivere.”

E. M.



La casa dei doganieri per noi è chiusa, adesso, e non ci fanno più entrare.

Abbiamo altre case e altre bussole. Lasciamo i nuovi giovani a domandarsi chi va e chi resta. Loscura primavera si è tradotta in un autunno pieno di foschia, la tua aria di vetro è quasi un ricordo, in questa città di alluvioni.

Qualcuno mi disse che eri un uomo scontroso, quasi cattivo - bello sforzo -

Come se si potesse essere piacevoli, camminando questa città di pietra grigia e ardesia.

Le tue parole ermetiche per noi liceali di Liguria avevano il chiaro significato delle albe sul promontorio, del cielo troppo turchese per non risultare crudele e di quella anima butterata e riarsa come buccia di limone.

Siano stramazzati con il tuo bue, abbiamo fumato le tue sigarette Giuba, abbiamo sceso milioni di scale. 

Ci siamo tutti innamorati disperatamente di Esterine abbronzate, in bilico sui flutti.

Siamo tornati a casa, sconfitti, ma rincuorati di sapere che, come te, eravamo quelli destinati a rimanere a terra. 

E ti abbiamo letto, di nascosto, quasi a celare un vizio. 

E ti abbiamo amato, ma come volevi tu, a debita distanza, quasi ringhiando il nostro affetto.

Nella cattività babilonese degli anni del liceo tu, come il Giano Bifronte, eri dogma ed eresia. I tuoi opachi sacerdoti/professori ti ingrigivano di incensi, ma noi avvertivamo comunque quel lampo di luce, beffardo ed atroce, nel rivo strozzato.

Non ci sei mai mancato, dal momento che, per noi, non ci sei mai stato, celato dall’azzurro marino dello smarrimento.

E, comunque, non sei mai andato via.

MARTA SORRIDE



Marta sorride mentre mi porge il bicchiere. La serata è stata lunga, e siamo stanchi. 

Il marinaio di Casablanca si è arenato sulle secche di questo bancone qualche anno fa, ancorato ad una birra sta discutendo con il muratore bergamasco, trascinato al mare dalla piena dellultima alluvione, tronco di faggio incastrato in questo dedalo di vicoli. 

Gesticolano con parsimonia genovese il linguaggio dei bevitori. 

Noi tutti guardiamo Marta, e cerchiamo la sua risata. 

E certo, qualcuno indugia nel golfo della sua scollatura, ma pacatamente. 

Perchè, alla fine, siamo tutti qui ad aspettare il sorriso di Marta, e le chiediamo, senza speranza, Facci restare in questo porto, Calipso, donaci loblio di ciò che siamo, per qualche ora”. 

E Marta ha gli occhi che ridono, mentre intreccia i capelli corvini nel pallido indice 

e controlla circospetta il suo profilo di Ninfa nel riflesso delle bottiglie ambrate. 

Lei conosce qualcosa che ci sfugge. 

La risacca di vecchie mareggiate, il monotono rosario di bestemmie e preghiere di antichi naviganti. 

E Marta sorride, e io non capisco se sia lei a decidere la rotta, stanotte, o se è questo Mediterraneo increspato che ci porta in deriva, attraverso i suoi occhi. 

L'ICEBERG E LA LUNA



La luna à un limone anemico spaccato a metà e appiccicato al soffitto. 

Laria artica e tersa spazza nel vicolo i resti di spazzatura, asciuga le pisciate sul muro e gli schizzi di vomito.

Sottocoperta il bar è pieno di gente, i ragazzi shakerano allunisono cocktail in bicchieri ghiacciati. 

Le bottiglie sulla rastrelliera mi sembra titolino tutte la stessa frase: il Paradiso è da questa parte. 

Ancora un giro per tutti. Cigolando, la giostra riparte.

Salgo in coperta, non sono previsti fortunali.

Camminando sul selciato di via Garibaldi, lo vedo stagliarsi, in fondo alla strada, enorme ed azzurro, mentre dalle finestre del club altolocato echeggia il complessino che suona Lucio Battisti. 

Liceberg frantuma i palazzi di prua, squarcia la veduta prospettica, già Patrimonio dellUmanità Unesco.

E Genova si inabissa, stanotte, in silenzio. Naufraga senza accorgersene tra una samba ed un lento.

Incurante di ogni cosa, sparisce nel flutto. Le luminarie si spengono, una ad una.

Equasi Natale.


LETTERA



Le cose che ti volevo dire, le cose che ti volevo dire.

Quelle frasi rafferme, biscotti dimenticati troppe notti sul comodino, tra un mezzo toscano e un rigurgito di Campari.

Quei guaiti al fruttosio, quei diabetici pentimenti via insulina, assunti in veglie livide di paura.

Tu avresti letto il foglio con un lieve tremore alla guancia, perdonandomi, nella frase rassegnata: come scrivi bene.

Il figliol prodigo ritorna! Ammazzate il vitello tonnato della domenica, con la tavola in bicchieri di cristallo di Baccarat e i parenti defunti sopra il televisore!

Ti ho risparmiato la pena da scontare ai perdoni forzati, la lacrima, il singulto nell’abbraccio al tuo carnefice, mentre ti trapassa, la benedizione a Caino, l’assoluzione post mortem ai miei peccati, il miracolo del tuo sangue che si scioglie nel mio.

Ti ho risparmiato per codardia, per ribellione, per disperata superbia.

Quella sera lo scrittore nordico ci disse: noi non siamo come voi, una volta commesso il peccato, la colpa è per sempre. 

E tutti a toccarci i coglioni irridendo il castigo che scontiamo ogni istante.

Le cose che avrei voluto dirti, le cose che avrei potuto dirti.

Quelle, lo sai, sono racchiuse nel silenzio di una nostra passeggiata in Via Garibaldi.

Ogni giorno cammino quelle parole mute, tornando a casa. 

Qualche volta mi auguro di riuscire a consumarle, nei passi di tutta la vita.

Poi mi volto, a controllare il selciato ruvido.

Non vedo traccia, né di te né di me.

LENTO FUMO

 


Il giorno della Santa tutto il paese si addobbava a festa, le bandierine colorate sulla piazza, noi bambini sul palco che lasciavamo i palloncini verso il cielo. 

Dopo il gelato del Bar Moderno mi portavano ad ossequIare i parenti alla lontana. Nella casa della Cicchinin percepivo ogni volta quell’odore di sigaro toscano e cera da pavimenti. 

Che poi, mi domandavo, chi era che fumava il sigaro, in quell’appartamento da anziana signora. Favoleggiavo di un Signor Cicchinin che riusciva, ogni volta, a volatilizzarsi, nel momento dei saluti, lasciando solo quel sentore di tabacco alle sue spalle. 

La villa della Signora Cantamessa, di un tardo Liberty invecchiato, era ombreggiata dal grande cedro del Libano. Quando la costeggiavamo mia zia proferiva “Guarda la villa della Signora Cantamessa!”. 

La casa era chiusa da tempo, e la Cantamessa, chiunque lei fosse, non era più, e da molto tempo. Fu in una di quelle estati che capii che i nomi delineavano i luoghi.

Quella casa era una Villa perché apparteneva, od era appartenuta, alla Signora Cantamessa.

Grande fu la mia delusione, anni dopo, quando scopersi che questa acuta riflessione era già stata scritta da un certo Marcel Proust.

Gli anziani notabili del paese percorrevano la via principale in sella alle loro Moto Guzzi di un rosso fiammante. Procedevano a passo d’uomo, il Panama in testa, le labbra strette a imprigionare il mezzo toscano, mentre il motore quattro tempi cadenzava il loro avanzare. 

C’era un senso, in quella laica processione, che io, bambino, potevo intravedere, senza capire del tutto.

Alla faccia di Boccioni, Marinetti e dei Futuristi, il mezzo meccanico si genufletteva alla pastorale contadina. Il rumore sordo e cadenzato del motore convolava in nozze riparatrici con il giogo di buoi che cigolava sullo stesso percorso.

Ripensandoci adesso, forse già allora avvertivo la maledizione. 

Forse già allora sospettavo che il frutto di quella unione, di quell’amplesso tra corna e pistoni, eravamo noi, giovani Asterione. 

Minotauri smarriti in un labirinto di internet: inermi, vigliacchi, ipocriti e violenti.

Certe notti mi chiedo se il mio fumare lento il mezzo toscano non sia altro che la Belva, nel dedalo di angoli acuti, che, smarrita, guarda la luna, rimpiangendo quel passato, mentre attende un Teseo multimediale che gli recida l’arteria.

INCANTESIMO



Nel giorno del suo battesimo il piccolo principe venne maledetto da una crudele strega non invitata al ricevimento: egli avrebbe smarrito sè stesso.

Alletà di dieci anni, per incanto, il principe si ritrovò in un altro paese, sconosciuto a tutti, vestito di stracci. 

Iniziò una nuova vita nellangiporto della città, tra ladri e puttane.

Imparò a rubare e fuggire, conobbe lo spergiuro e il gioco dei dadi, la disperazione e il vino che placa il rimpianto. 

Si sentì perduto in una notte di scirocco, quando la pioggia intrisa di polvere del deserto sembra un velo di fango. 

Adescò fanciulle che sapevano di salsedine, dormì il sonno del vagabondo su giacigli di paglia.

Dopo dieci anni lincantesimo si sciolse, e ritornò alla corte del suo regno.

Finalmente ripresi i suoi abiti e il suo lignaggio, con doloroso stupore realizzò che non era più in grado di subire il rigido cerimoniale di corte. 

Inadatto a condurre la sterile processione dellaristocratico, sognava maleodoranti vicoli, e una sorda libertà che, ora, gli era preclusa. 

Eppure, non aveva forza e coraggio per ritornare a quel mondo.

E non sapeva quale vita sognasse, e quale vita fosse sogno.

La maledizione della strega inizia ora.

MEZZAPORZIONE

Mezzaporzione arrivò come uno dei tanti lavapiatti da quell’intrigo subdolo di vicoli sporchi e depravati che tanto piacciono al turista in ...