Che poi, a pensarci bene, tutto questo bisogno di incasellare anni e date, e momenti, in un ordine cronologico preciso, si incaglia nelle secche della nostra memoria.
Abbiamo avuto tutti, suppongo, un certo periodo fuori dal tempo, una specie di paradiso terrestre.
Il mio fu una estate a Rapallo, in un parco vicino al mare, ma non voglio ricordare quando.
Avevano appena allestito un castello e una area giochi per bambini, fra alberi secolari che donavano una verde penombra nella calura di agosto.
Fu chiaro da subito chi fosse il capo della nostra banda.
Lei, con i suoi pantaloncini rosa e le lunghe gambe da tedesca e i suoi capelli biondi e quell’italiano germanizzato, ci comandava tutti per diritto naturale.
Anche la banda nemica era avversaria solo nella segreta speranza di essere notata da lei.
Lei, con la sua camminata marziale e gli occhi più azzurri del mare di primo mattino, e la consapevolezza di essere unica. E desiderata.
Quel giorno eravamo pirati contro corsari.
Lei svettava con il suo cappello nero con teschio bianco e una benda sull’occhio sinistro.
La missione era proteggere la mappa del tesoro dal nemico, un foglio tracciato a pennarello che solo lei sapeva dove era nascosto.
Io le giravo sempre intorno, come un pianeta ruota intorno alla sua stella.
“Marinaio! Mi sarai sempre fedele?” mi chiese mentre mi puntava al mento il suo bastone. “Sempre, sempre, mio capitano! Fino alla morte!”
Ero un bambino che aveva già letto tutta l’epopea salgariana, in edizione annotata, per giunta, e con prefazione di Pietro Citati.
Sapevo bene il mio destino.
L’avrei amata disperatamente ed inutilmente, e mi sarei immolato per lei, come i personaggi minori de I Pirati della Malesia.
Chi se ne fregava delle Perle di Labuan con cui giocavo sulla spiaggia, tutte moine, bambole e orecchini. Io avrei desiderato, invano e per sempre, solo lei, la mia piratessa impavida, il mio capitano dalle lunghe, bellissime gambe, dagli occhi irresistibili e dalle labbra imbronciate.
Si fermò un secondo a squadrarmi, io non riuscii a sostenere il suo sguardo.
“Vieni con me” mi ordinò concisa, e mi trascinò dietro un grande ippocastano, lontano dagli altri.
“Vuoi vedere la mappa?” “Certo, Capitano” le risposi balbettando.
Le spalle appoggiate al tronco, spinse il bacino in avanti, abbassando con i pollici la vita dei suoi pantaloncini e del costume, sotto.
Il foglio di carta era nascosto là dentro, ma io fui folgorato dal suo sesso che lei mi mostrava ridendo, senza paura.
Il tempo si fermò, insieme al mio cuore.
Avevo di fronte l’assoluto, il principio di ogni cosa, la vita stessa.
Quella fenditura di conchiglia che schiudeva ai miei occhi imprigionava tutti gli oceani del mondo. Io, frastornato, ne ascoltavo il ruggito.
Capii più cose in quella epifania di quante mai ne avrei afferrate nelle letture di una vita, ed ebbi la consapevolezza, in quel momento, che avrei consumato anni nel cercare di decifrare quella mappa.
Capii che esisteva un Bello, assoluto, inarrivabile, indicibile, eppure così delicato, in costante pericolo per la sua stessa natura. Perché è facile odiare il bello, specie quando sai che non è destinato a te, e provai pietà per la banda avversaria, che la detestava solo perché non riusciva ad amarla da lontano, senza possesso, e una serena tristezza mi prese, mentre guardavo quella albicocca acerba, mormorando: “Grazie, mio Capitano”.
Qualche volta la sogno, ancora.
Ci incontriamo per caso, ormai quasi vecchi, ci riconosciamo a fatica.
Prendiamo insieme un caffè, parliamo di lavoro, di niente.
Di colpo ricordo che siamo in un sogno, e le dico: “Capitano, vorrei rivedere la mappa del tesoro” Lei sorride e mi svela quel foglio segreto.
Io guardo, mi perdo, e ringrazio.
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