La spuma delle onde che gridano contro il mio corpo è bianca come la neve, e sembrano montagne quelle masse di acqua che si scaraventano su di me.
Il mare ha il colore del ferro, e mi trattiene in un gorgo da cui non so più uscire:
sto annegando.
Eppure avevo controllato tutto.
Ho portato mio figlio e Leonilda, la figlia dei nostri amici greci, nella spiaggia di Parosporos, perchè, sapendo della mareggiata, potessero divertirsi a prendere le onde in un litorale protetto.
Una lingua di sabbia, a cinquanta metri dalla battigia, rompe la marea, e crea un’onda lunga e sicura. Entro da solo, controllo fino a dove si può camminare, e tranquillizzato, incominciamo a farci sollevare fino a riva dalle ondate.
Peccato che non mi accorgo della corrente che, ad ogni scivolata, ci conduce sulla destra, dove la barriera di sabbia sprofonda improvvisamente, e il mare mulinella in correnti impetuose.
E quando sento mio figlio, disperato, chiamarmi, e nuoto verso di lui, è troppo tardi.
Non sono certo un grande nuotatore, e il panico mi prende, mentre lo afferro e uso ogni muscolo nel disperato tentativo di portarlo verso la riva. Riesco a sollevarlo, a spingerlo avanti, dove Leonilda mi guarda e urlo: “Nuotate! Nuotate verso riva!”.
Quando vedo mio figlio che si appoggia alla sua amica scivolando sull’onda capisco che loro sono in salvo, e il terrore svanisce.
Ma resto intrappolato nella corrente, ho i crampi a tutte due le gambe, provo a portarmi avanti senza successo, mentre una stanchezza enorme mi blocca anche le braccia.
Una parte del mio cervello continua ad ordinare ad un corpo esausto di lottare, ad una voce flebile, travolta dal ruggito del mare, di chiedere inutilmente soccorso, mentre un’altra parte se ne va, seguendo le onde: “Così è qui, dove finisce” mi scopro a pensare, “E’ questo il luogo dove io muoio” e, improvvisamente, un freddo placido mi prende, come se fossi coperto di brina, e non sento più niente, i colori svaniscono, c’è solo il blu livido del cielo e il cobalto dell’acqua: e mi lascio sprofondare.
Mentre affondo urto con il tallone uno scoglio, e quella parte di me che non vuole annegare si dibatte, annaspa, scalcia fino a che non ritrova un appoggio ulteriore, e poi un altro, guadagnando lentamente la riva.
Intanto i ragazzi sono usciti dall’acqua e chiamano i soccorsi.
Un uomo alto e robusto arriva correndo, si scaglia su di me, rifacendomi crollare in acqua, mi aiuta a rialzarmi e finalmente posso arrivare alla spiaggia.
La sera, a cena, ci raccontiamo diverse volte l’avventura, i nostri figli alternano eccitazione a risate, e tutto si stempera.
Ma quel sottile strato di galaverna che mi aveva avvolto è rimasto nei miei occhi.
Sono assente, distaccato.
I colori dolci e caldi dell’isola sono filtrati dal ghiaccio che perdura nelle pupille.
Forse mia moglie e i nostri ospiti se ne accorgono, perchè mi sembra che si parlino sottovoce, mentre mi osservano.
Il mattino successivo andiamo a visitare il piccolo museo dell’isola.
La statua di una Gorgone mi attira morbosamente, il corpo proteso in avanti, mi osserva ghignante e malefica.
Gli occhi scolpiti nel marmo di Paros sono quasi consumati, eppure penetrano ancora come una lancia.
Leggo sul cartello che aveva uno scopo apotropaico, esorcizzante.
Il male contro il Male.
Usciamo e mia moglie mi dice che dobbiamo passare a prendere il bimbo più piccolo dei nostri amici a casa della nonna.
Yannis, il padre, ci aspetta fuori dalla piccola abitazione e ci conduce all’interno, in un soggiorno quasi buio.
Confusa con l’oscurità, una donna anziana vestita di nero si muove verso di noi. Arretro di istinto mentre due grandi e vecchi occhi neri profondi come abissi mi osservano.
“Sediamoci un secondo” dice mia moglie “No, grazie, preferisco restare in piedi” rispondo nervoso. La voce di Yannis, alle mie spalle è bassa, e non ammette repliche: “Siediti, Fausto”.
Come un automa, prendo posto sul divano, impaurito, mentre quegli occhi continuano a fissarmi, poi si volta e sparisce in cucina, e ritorna, senza nessun suono, quasi scivolasse sul pavimento, con un bicchiere colmo a metà di acqua e un’altro, più piccolo, che contiene un liquido giallo e viscoso.
Mentre si avvicina trattengo il respiro, in un panico primordiale: è la Gorgone, la Signora delle Serpi, e quel liquido mi ricorda il siero delle vipere.
Mi porge il bicchiere d’acqua, mentre intinge l’unghia del mignolo nel veleno, per versare poche gocce di olio nell’acqua trasparente.
Una moltitudine di piccole isole ramate si formano sulla superficie.
Lei solleva il bicchiere di fronte a me e lo muove rapidamente intorno al mio volto, mormorando parole che non capisco, fino a che le macchie dorate non svaniscono, per incanto.
Improvvisamente sono stanchissimo, e, lo avverto, anche lei.
Ora sento il suo respiro rompersi in affanno, ma non lascia la presa, quegli occhi impossibili continuano a mordermi, a divorarmi, senza fretta, senza tregua.
Finalmente posa il bicchiere, e mi sorride. Stordito emergo da un mare freddo, e nero. Emergo da quello sguardo velenoso.
Arrivato a casa, Emanuela, la moglie di Yannis, mi guarda: “Mi ha detto che ora devi riposare. E che piangerai.”
Scendo in camera e mi sdraio. Sono sfinito. E, proprio mentre poso il capo sul cuscino, sento quel ghiaccio sciogliersi dai miei occhi, e colare, silenzioso, sopra la federa.
Quando riemergo dalla stanza, è quasi sera.
Dobbiamo andare al supermercato a fare spesa per la cena. La luce al neon degli scaffali e la musica lounge hanno un curioso effetto oppiaceo sui miei pensieri.
Non ho voglia di ragionare sopra quanto è successo.
Paghiamo ed esco con il carrello cigolante sul piazzale del parcheggio, che qualche architetto/filosofo greco ha fatto costruire in fronte al golfo, con una vista mozzafiato.
Il sole sta tramontando: una infinita serie di sfumature di oro, calde, pastose, si offre al mio sguardo.
Rimango immobile, entrambe le mani sul carrello, a guardare e bere quella luce,
una sagoma di cartone, armato di vettovaglie superflue, posizionato ai bordi di una esplosione nucleare, come avveniva nei test atomici degli anni cinquanta, nei deserti dell’Arizona.
Infine, ciabatto sferragliando con la spesa, avvolto dal Meraviglioso, verso la macchina.
Abbiamo medicine per ogni tipo di malattia, grazie al cielo, e medici per ogni forma di malessere, sia fisico che mentale.
Io, non so quale fosse il mio male, forse il Morbo dell’Ignominia nell’essere sopravvissuto, oppure la Febbre della Vergogna nell’avere desiderato di cedere.
Non lo so.
Ma il vero miracolo è che io sia stato guarito da una immortale, millenaria Gorgone, in una isola dell’Egeo.
Il vero mistero è che abbia realizzato di essere stato salvato all’uscita di un supermercato, immerso nei raggi dorati del Sole di Apollo.