giovedì 25 marzo 2021

AMICO DI IERI



La sua voce al telefono di prima mattina è un reperto fossile di un milione di anni fa, e mi chiede se mi ha svegliato. 

No, gli rispondo, va tutto bene. 

E’ solo un paradosso del tempo, una sveglia telefonica impostata decenni indietro e che mi desta dal sonno oggi - ma questo non lo dico, lo penso soltanto - è solo quel conato dal passato, quando c’era lei e la mia vita era sempre nei guai, come ora, ma con altri personaggi.

Sta venendo a Genova, mi dice: prendiamoci un caffè. E perchè no, caro il mio amico di ieri, prendiamoci un caffè.

Prendiamoci un caffè per parlare di affari, per parlare di donne, per parlare di ciò che eravamo e, quindi, per parlare di niente.

Si guardano i culi delle ragazze che passano, si ricordano i culi delle ragazze passate: noi si prende un dannato caffè, con le frasi fatte, le allegre storielle, e, dopo una breve pausa, il ricordo di lei, accennato con un sorriso imbarazzato e subito inumato nel posacenere insieme alla salma di un sigaro.

I grandi progetti in tazza piccola, le piccole filosofie in tazza grande, il qui e adesso contro il laggiù e l’allora di trenta anni fa. E, comunque, va sempre tutto bene, ci mancherebbe.

La gente distratta consuma al banco, paga e va via - dopo di lei, prego -

Piccioni impettiti pascolano tra i tavoli, pomposi come diplomatici ad un rinfresco in Ambasciata. 

Una vecchia dama dai capelli turchini allatta a cappuccino e brioche i suoi Carlini in collare Vuitton, si guarda intorno come se aspettasse qualcuno -  lui doveva arrivare dieci anni fa, signora, ma ha avuto un contrattempo ventenne da cinquecento euro la botta, con albergo quattro stelle e massima riservatezza -

Anche la mia disperazione è in ritardo, arriva trafelata al tavolo proprio quando lui mi dice che devo iniziare a volermi bene. Le bustine di zucchero multiculturale si accasciano sul tavolo, surclassate da quel luogo comune più triste del loro vestito equosolidale. 

Una canea di clacson si ostina a suonare per fare crollare le bibliche mura di Genova.

Lontano, sul mare, guardo le nuvole di quei giorni remoti, quando c’era ancora lei, e tutto naufragava a gonfie vele.

Proprio così, amico di ieri, devo ancora imparare a volermi bene, ad amare queste vecchie ossa, queste cicatrici di battaglie trionfalmente perdute, come quel cadavere di amore lasciato marcire in pasto ai vermi del rimorso. Devo proprio imparare a diventare sconfitto definitivamente e guardarmi allo specchio con tenerezza, la bava di un sorriso alla bocca e lo sguardo meravigliato di chi ha abbracciato la fede degli antidepressivi  in confezione da dodici, come gli apostoli.

La prossima volta che telefonerai, tra un milione di anni,  ti prometto che vestirò quel completo arlecchino che mi hai consigliato: un colore per tutto, dal matrimonio al funerale, una pezza su ogni ricordo.

Torneremo a bere un caffè, a parlare di affari, di donne, di niente, per evitare di parlare di lei.

E ti prometto che mi vorrò bene, per allora, amerò ogni singola colpa, mi perdonerò anche gli errori che non ho commesso, ma che progetto fiduciosamente per il futuro. 

Fingerò persino di guardare i culi delle donne con quel genere di sorriso ammiccante che fa tanto simpatico, fasullo come quello del cassiere quando gli lasci il resto, e ci augura una buona giornata.


martedì 23 marzo 2021

RITRATTO DI FAMIGLIA IN UN ACQUARIO



Lei ha un sorriso inerte, anestetizzato dai colori pastello di un qualche anti depressivo di ultima generazione, mentre, con occhi vuoti come i bicchieri che ho trangugiato questa notte, mi ordina una pasta al burro per il figlio più piccolo. 

Lui ha la disinvoltura di quegli uomini sulla quarantina che vogliono dimostrare di essere perfettamente in forma, ancora giovani, assennati, ma con un che di spirito ribelle. 

Pregasi notare il filo di palestra, sotto i tatuaggi in stile yakuza giapponese.

I bambini, seri ed annoiati, ci tengono ad atteggiarsi a figli di un Briatore minore. 

Se potessero mi esibirebbero un libretto di assegni. Della Banca di Topolinia, data l’età.

Non sono particolarmente disturbanti, una famigliola turistica che ha smarrito il sentiero di mattoni d’oro, e si ritrova accidentalmente in questo posto, ma mi procurano uno strano senso di disagio.

Mi domando a lungo, mentre porto piatti fra i tavoli, che cosa mi inquieta nella loro presenza.

Hanno sicuramente visitato l’Acquario, in una gita festiva per grandi e piccini. 

La loro felicità di plastica, usa e getta, riverbera su di me la vecchia domanda: in fondo, non siamo tutti uguali? 

Non ci illudiamo tutti di avere un significato, uno scopo? Non ci atteggiamo tutti nei panni di una serenità artefatta, chi con una gita al mare, chi con la vacanza culturale, chi, come me, nella propensione agli alcolici e alle ore piccole?

In epoca medioevale erano comuni i dipinti di tre giovani cavalieri, nobili ed agiati, che si imbattevano in altri tre cavalieri con le carni putrefatte, i vestiti a brandelli, le occhiaie vuote.

Con orrore scoprivano che erano di fronte alle loro immagini, deturpate dal tempo e dalla morte.

Oggi, in questa epoca di divertimento preconfezionato, di felicità obbligatoria, di processioni di turisti in fila come vermi, che inalberano al posto dei crocefissi i loro bastoni da selfie - i cellulari orizzontali, come una croce - questa famiglia disvela il mio destino, il destino di tutti, tra Prozac, alcol, centri benessere e partitella a calcetto. 

Quando escono dimenticano sul tavolo la foto ricordo scattata all’Acquario. 

Sono in posa, seri, nei loro sgargianti vestiti sportivi. Nessuno ride. 

Il geniale marketing dell’Acquario di Genova li ha incorniciati tra le fauci dentate di uno squalo bianco. 

Sollevo il cartoncino fustellato con l’immagine, e rido amaramente, mentre penso che è proprio così: siamo tutti lì, composti e quasi tristi, nella bocca del pescecane, come Pinocchio. 

Aspettiamo che le poderose mascelle si chiudano su di noi.

Chissà, forse l’ufficio marketing dell’Acquario, oggi, prende il posto della pittorica medioevale. 

sabato 20 marzo 2021

NOBLESSE OBLIGE



Millantava una fraterna amicizia con Manuel Vazquez Montalban, comunque impossibile da comprovare, essendo lo scrittore deceduto. 

Vantava non ricordo quali titoli nobiliari, ascritti alla moglie, che precedeva trionfalmente all'entrata del ristorante, facendo spazio alla sua apparizione, ieratica come una diva del muto, con i suoi enormi cappelli popolati di penne di fagiani, pernici, pavoni, tanto che mi figuravo quei copricapo iscritti all'elenco nazionale delle Oasi Protette e fantasticavo che le stole che avvolgevano la sua figura fossero volpi ed ermellini caduti nel sonno, dopo lunghe razzie tra i volatili del suo cappello. 

Mi trattavano con un benigno disprezzo, la indulgente alterigia di chi sa, ahimè, che non esistono più buoni servitori, e ci si deve contentare. 

Lui condivideva con me piccanti rivelazioni su amanti di lui e di lei con la naturalezza del gentiluomo che scambia due parole frivole con il venditore di frutta o di giornali. Mai, però, mi avrebbe parlato di musica o letteratura, perché, a suo avviso, mondi ci separavano. 

Erano estinti come un fossile del Cambriano e la mia bonaria sufficienza incartava la loro, senza che se ne avvedessero. 

Poveri anziani manichini con le loro polverose regole di bon ton, che non sapevano di essere morti, fucilati insieme ai Romanoff dalla Armata Rossa, affondati con la prima classe del Titanic, esiliati con il loro re dal referendum per la Repubblica. 

Quella sera avevano riservato un tavolo per otto e lui era giunto prima degli altri, in compagnia di una amica della moglie. 

Si erano seduti, ordinando spumante nell'attesa. 

Ad un certo punto tutta la sala ascoltò la voce di lei urlargli: "Non tollero che tu parli di lei! Non devi nominarla! Villano, non sai che non si parla di un'altra donna quando si è con una gentildonna?" 

Stupiti per l'insolito tono di voce, ci ritrovammo tutti a considerare questo punto di vista. L'espressione di perplesso "Ah, non sapevo!" era stampata su ogni cliente.

Nel frattempo lei, a chiosa della sua lezione di galateo, gli gettò in faccia tutto il bicchiere di vino. 

Un silenzio teso ed imbarazzato ci avvolse tutti. Eravamo a guardarlo, bocca aperta, senza neanche far finta di niente, muti e curiosi. 

Lui si alzò in piedi. Con estrema, elegante nonchalance, estrasse la pochette dal taschino, si asciugò il viso. Poi, rivolto a tutti noi, con tono discreto disse: "Chiedo scusa, è colpa mia." 

Non ci fu uomo che non provò una fervente ammirazione per lui e non ci fu donna che non avvertì gratitudine per lei.

Credo ne uscimmo tutti un po' migliori.


Certo, oggi siamo più liberi, svincolati da noiose etichette, siamo liberi di vomitarci addosso insulti e sgarbi, liberi di nuocere, di prevaricare. 

Certo abbiamo giustiziato la nobiltà ma, nell'entusiasmo della ghigliottina, abbiamo decapitato anche la Grazia.

E così quelle figure, atteggiate a pose da opera mozartiana, dileguano nei ricordi e il Nuovo avanza tra suonerie telefoniche e messaggi vocali ascoltati a tutto volume.

martedì 16 marzo 2021

MEA, PER GLI AMICI



Bevendo ouzo, considera malinconicamente le sue origini.

Viene da una città arcigna e matrigna, dove il suo destino è stato deciso già dai tempi del liceo: la giusta sezione, la giusta compagna di banco.

Una città dove le figlie vestivano come le madri - cerchietto e borsetta - e la ribellione adolescenziale era codificata dalla gonna un centimetro sopra il ginocchio.

E poi, più avanti negli anni, pantalone rosso su mocassino scamosciato per lui, e una pletora di storpiature onomastiche per lei: Pupi, Chicca, Lolli, Margi, Clo, Steffi…

Mea, il suo nome di battesimo in società. 

La nausea che prova in queste considerazioni va giudiziosamente attribuita all’ouzo, alla calda serata egea e a quella Penelope interiore, soffocata dal tessere regole, ruoli e carriera.

E’ riuscita a fuggire per qualche giorno dal suo labirinto, come Dedalo, grazie ad un paio di ali low cost.

Air Meltemi l’ha trascinata per quel cielo cicladico fino a posarla su quel tavolino al tramonto sul mare. Domani ritornerà nella sua prigione di strade di ardesia.

Quell’uomo dagli occhi pensosi tra poco le parlerà in quella lingua che non comprende e stranamente riconosce, che la richiama all’onusto Vocabolario Rocci e alle versioni di greco antico nel silenzio sacrale della Prima Sezione del Primo Liceo della Quarta Ginnasio, nella decima giornata grigia di pioggia.

Lui ha la pelle colore del legno, un sorriso lieve, e le sta chiedendo qualcosa.

La Penelope ribelle dentro di lei, quella che disfa voluttuosamente ogni notte l’ordito della trama stabilita dal destino, ha già capito tutto, e tutto vede.

Non tornerà mai più indietro.

Non ci saranno mai più sabato sera in casa di amici, a giocare a Risiko, a compilare liste nozze per Pupi, Chicca, Lolli, all’ombra di esauste librerie in noce con la cornucopia in argento sul tavolo mogano e le cornici dei parenti in cristallo.

Penelope sorride, selvaggia e feroce, mentre lei gli accende la sigaretta.

In quella piccola fiamma la città tutta di Ilio d’ardesia prende fuoco nella notte stellata.

Per gioco di luce, il cavallo dal manto colore di legno degli Achei pare abbia un lieve sorriso, e occhi pensosi.

lunedì 15 marzo 2021

IL MARE E GLI AMICI

Anche questa volta l’ho mancata. Avevo da fare, avevo da fare. 

Le piccole burocrazie del quotidiano vivere, che poi è il quotidiano morire.

La mareggiata era a gridare, a poca distanza, e ho sentito il suo urlo solo nei video onnipresenti della nostra esistenza mediatica. 

Pornografia sgranata e volgare al posto della passione e dell’amore.

Di malumore, deluso di me stesso, ho pensato a quella notte di quaranta anni fa, e ai vecchi amici.

Eravamo al limite dei colpi delle onde, soffocati dal salino e dal vento, e dal rumore ossessivo del mare. La vita, misteriosa e terribile, infuriava di fronte a noi. 

Un solo passo in avanti e ci avrebbe condotti per mano alla morte. 

Tutto era confuso e noi ridevamo forte la nostra paura.

Tutto era confuso, e noi, confusi negli anni di gioventù, ci sentivamo a casa, la casa dei naufraghi, orribile e sconfinata oltre gli scogli.

Restammo a lungo, immobili contro il vento, a misurare le nostre forze, urlando tutta la rabbia del debole contro un dio sordo e spietato.

Lo vidi, lontano e al largo, nel profondo ruggito del mare. Un dio selvaggio, che non aveva neanche la necessità di dimostrare di esistere, tanto se ne fotteva di noi e del nostro gracchiare.

Più tardi, molto a lungo, nel letto, la risacca inondò la mia mente. Nel sonno disturbato i miei amici erano gabbiani che giostravano nel vento, con alte strida. 

Pensai che erano forti, a modo loro, e fragili: erano liberi.


Anche questa volta l’ho mancata. 

Mi sono preparato da bere, ho dato fondo al rimpianto e, alla fine, ho spento la luce, cadendo, sconfitto, su un letto di ricordi.

Prima di perdere coscienza ho sognato, nel centro del mare in tempesta, il biancheggiare di ali. 

Ho salutato dalla riva intorpidita dall’alcol e gli ho gridato che erano proprio come li ricordavo.

venerdì 12 marzo 2021

ALBERTOSORDI

Sei entrato con il tuo accento ciociaro e la voce baritonale da imbonitore alla Alberto Sordi, a vendermi un pennarello indelebile e un bloc notes.

Alle mie proteste di diniego, il tuo sguardo, sdrucito come i tuoi vestiti: 

Non disturbo nessuno, non faccio rumore -

Ti ho elargito spiccioli di comprensione colpevole.

Hai insistito nel lasciarmi il pennarello “di grande qualità” hai sottolineato “affidabile, come me”.

Mi hai confessato, in tono professionale, che ti trovi in un momento di difficoltà.

Sembrava quasi di sentire lo speaker della borsa che descrive un ribasso azionario.

Ho annuito, compreso, quasi fossimo due investitori che dissertano del loro portafoglio di investimenti.

Dopo, ho dovuto bere forte, per dimenticarti, per dimenticarmi.

Sono stanco di vedere persone come te, stanco di leggere quella pacata disperazione, quegli occhi miti e sperduti, che cercano di illuderti in un futuro migliore. 

E’ solo un momento di passaggio, domani sarà meglio -

Sono stanco di lasciare monetine nelle mani di un altro che ha le mie stesse mani, la stessa faccia.

Sei entrato, come uno dei tanti. Sapevo già quello che chiedevi, sapevi già le mie obiezioni.

Allora, perché rimani? Perché inciampo sulla tastiera, a ricordarti con rabbia?

Albertosordi, scritto tutto attaccato, ho paura che la tua immagine si rifletta nella mia, e, forse, ne ho un oscuro presentimento. 

Sei il selciato sconnesso del vicolo, sei il lamento dell’ubriaco accovacciato per terra, la saracinesca del bar che sta chiudendo, la puttana che ti chiama, senza speranza.

Sei tutti i ricordi che volevo dimenticare, e ritornano, con un timido sorriso di scuse.

Sei solo un accidente di passaggio. Domani andrà meglio.


martedì 9 marzo 2021

SACRO E PROFANO



Ora, pensa ad un sipario che si apre, i drappi rossi ed usurati in pesante velluto si scostano e un palcoscenico di vecchio legno rappezzato a linoleum si presenta in tutta la sua maestosità di polvere. 

Sullo sfondo, lo schermo cinematografico montato negli anni cinquanta, quando il cinema conquistava la provincia e il fumo azzurro delle sigarette degli spettatori rendeva così piacevole la visione del film in bianco e nero, aggiungendo quei toni di grigio perlaceo che sarebbero poi divenuti leggenda e nostalgici ricordi, ospedalizzati nelle sintomatologie da fumo passivo.

Anche il nome era fuori moda, come un viale del tramonto, come un Fitzcarraldo che ha costruito il suo teatro amazzonico scollinando l’Appennino.

Lo Splendor si ergeva lussureggiante sulla via principale del paese, parte nuova, prego, quella che collega il carro di buoi all’asfalto della Provinciale del Turchino.

Decaduto a Cinema Parrocchiale dopo i fasti del boom economico, le sue sedie in supplizio di legno si giustapponevano ai dipinti neocolonialisti di dame languidamente adagiate sopra canapè damascati. 

Mi sono sempre domandato come mai le decorazioni dei luoghi parrocchiali richiamassero così filologicamente quelle dei bordelli ante Legge Merlin, ma, tutto sommato, trattavasi di luoghi di culto, sacro e profano.

La proiezione era Pane e cioccolata con Nino Manfredi, e noi ragazzi si bivaccava in sala a fare le bolle con i ciungai, azzannare reganisso e darci pugni di nascosto.

Quando la scena inquadrò l’attrice che emergeva dalla piscina in topless fu come se tutta l’aria della sala venisse risucchiata nei nostri polmoni - tutte le gomme inghiottite - e poi risputata fuori in un uragano di urla di giubilo. 

Per la prima volta ammiravamo in Technicolor e Cinemascope un paio di tette.

Fu l’indelebile frazione di un secondo.

Già Don Badino, la tonaca nera come il pastrano di Nosferatu, versione Murnau, si era precipitato contro lo schermo, le braccia allargate e il capo reclinato, ostensione di crocifisso melanconico ad oscurare quelle colline ridenti, a censurare il nostro sangue e testosterone che saliva come una marea richiamata da quelle due lune rosa.

Mentre l’anemico prete squittiva all’operatore “Spegni! Spegni!” noi lo si lapidava di Gomme del Ponte, lo si trafiggeva al costato con bastoncini di liquirizia.

E, sopra quel Golgota di palcoscenico, la Croce si ergeva ad oscurare il sole di quelle poppe che tramontavano, quasi fosse un documentario religioso sulla Passione di Nostro Signore il Desiderio, coronato di spine.


domenica 7 marzo 2021

ANNEGANDO



La spuma delle onde che gridano contro il mio corpo è bianca come la neve, e sembrano montagne quelle masse di acqua che si scaraventano su di me. 

Il mare ha il colore del ferro, e mi trattiene in un gorgo da cui non so più uscire: 

sto annegando.


Eppure avevo controllato tutto. 

Ho portato mio figlio e Leonilda, la figlia dei nostri amici greci, nella spiaggia di Parosporos, perchè, sapendo della mareggiata, potessero divertirsi a prendere le onde in un litorale protetto. 

Una lingua di sabbia, a cinquanta metri dalla battigia, rompe la marea, e crea un’onda lunga e sicura. Entro da solo, controllo fino a dove si può camminare, e tranquillizzato, incominciamo a farci sollevare fino a riva dalle ondate. 

Peccato che non mi accorgo della corrente che, ad ogni scivolata, ci conduce sulla destra, dove la barriera di sabbia sprofonda improvvisamente, e il mare mulinella in correnti impetuose. 

E quando sento mio figlio, disperato, chiamarmi, e nuoto verso di lui, è troppo tardi. 

Non sono certo un grande nuotatore, e il panico mi prende, mentre lo afferro e uso ogni muscolo nel disperato tentativo di portarlo verso la riva. Riesco a sollevarlo, a spingerlo avanti, dove Leonilda mi guarda e urlo: “Nuotate! Nuotate verso riva!”. 

Quando vedo mio figlio che si appoggia alla sua amica scivolando sull’onda capisco che loro sono in salvo, e il terrore svanisce. 

Ma resto intrappolato nella corrente, ho i crampi a tutte due le gambe, provo a portarmi avanti senza successo, mentre una stanchezza enorme mi blocca anche le braccia. 

Una parte del mio cervello continua ad ordinare ad un corpo esausto di lottare, ad una voce flebile, travolta dal ruggito del mare, di chiedere inutilmente soccorso, mentre un’altra parte se ne va, seguendo le onde: “Così è qui, dove finisce” mi scopro a pensare, “E’ questo il luogo dove io muoio” e, improvvisamente, un freddo placido mi prende, come se fossi coperto di brina, e non sento più niente, i colori svaniscono, c’è solo il blu livido del cielo e il cobalto dell’acqua: e mi lascio sprofondare. 

Mentre affondo urto con il tallone uno scoglio, e quella parte di me che non vuole annegare si dibatte, annaspa, scalcia fino a che non ritrova un appoggio ulteriore, e poi un altro, guadagnando lentamente la riva. 

Intanto i ragazzi sono usciti dall’acqua e chiamano i soccorsi. 

Un uomo alto e robusto arriva correndo, si scaglia su di me, rifacendomi crollare in acqua, mi aiuta a rialzarmi e finalmente posso arrivare alla spiaggia. 

La sera, a cena, ci raccontiamo diverse volte l’avventura, i nostri figli alternano eccitazione a risate, e tutto si stempera. 

Ma quel sottile strato di galaverna che mi aveva avvolto è rimasto nei miei occhi. 

Sono assente, distaccato. 

I colori dolci e caldi dell’isola sono filtrati dal ghiaccio che perdura nelle pupille. 

Forse mia moglie e i nostri ospiti se ne accorgono, perchè mi sembra che si parlino sottovoce, mentre mi osservano.

Il mattino successivo andiamo a visitare il piccolo museo dell’isola. 

La statua di una Gorgone mi attira morbosamente, il corpo proteso in avanti, mi osserva ghignante e malefica. 

Gli occhi scolpiti nel marmo di Paros sono quasi consumati, eppure penetrano ancora come una lancia. 

Leggo sul cartello che aveva uno scopo apotropaico, esorcizzante. 

Il male contro il Male. 

Usciamo e mia moglie mi dice che dobbiamo passare a prendere il bimbo più piccolo dei nostri amici a casa della nonna. 

Yannis, il padre, ci aspetta fuori dalla piccola abitazione e ci conduce all’interno, in un soggiorno quasi buio.

Confusa con l’oscurità, una donna anziana vestita di nero si muove verso di noi. Arretro di istinto mentre due grandi e vecchi occhi neri profondi come abissi mi osservano.

“Sediamoci un secondo” dice mia moglie “No, grazie, preferisco restare in piedi” rispondo nervoso. La voce di Yannis, alle mie spalle è bassa, e non ammette repliche: “Siediti, Fausto”.

Come un automa, prendo posto sul divano, impaurito, mentre quegli occhi continuano a fissarmi, poi si volta e sparisce in cucina, e ritorna, senza nessun suono, quasi scivolasse sul pavimento, con un bicchiere colmo a metà di acqua e un’altro, più piccolo, che contiene un liquido giallo e viscoso. 

Mentre si avvicina trattengo il respiro, in un panico primordiale: è la Gorgone, la Signora delle Serpi, e quel liquido mi ricorda il siero delle vipere. 

Mi porge il bicchiere d’acqua, mentre intinge l’unghia del mignolo nel veleno, per versare poche gocce di olio nell’acqua trasparente. 

Una moltitudine di piccole isole ramate si formano sulla superficie. 

Lei solleva il bicchiere di fronte a me e lo muove rapidamente intorno al mio volto, mormorando parole che non capisco, fino a che le macchie dorate non svaniscono, per incanto. 

Improvvisamente sono stanchissimo, e, lo avverto, anche lei. 

Ora sento il suo respiro rompersi in affanno, ma non lascia la presa, quegli occhi impossibili continuano a mordermi, a divorarmi, senza fretta, senza tregua.

Finalmente posa il bicchiere, e mi sorride. Stordito emergo da un mare freddo, e nero. Emergo da quello sguardo velenoso.

Arrivato a casa, Emanuela, la moglie di Yannis, mi guarda: “Mi ha detto che ora devi riposare. E che piangerai.”

Scendo in camera e mi sdraio. Sono sfinito. E, proprio mentre poso il capo sul cuscino, sento quel ghiaccio sciogliersi dai miei occhi, e colare, silenzioso, sopra la federa.

Quando riemergo dalla stanza, è quasi sera. 

Dobbiamo andare al supermercato a fare spesa per la cena. La luce al neon degli scaffali e la musica lounge hanno un curioso effetto oppiaceo sui miei pensieri. 

Non ho voglia di ragionare sopra quanto è successo.

Paghiamo ed esco con il carrello cigolante sul piazzale del parcheggio, che qualche architetto/filosofo greco ha fatto costruire in fronte al golfo, con una vista mozzafiato. 

Il sole sta tramontando: una infinita serie di sfumature di oro, calde, pastose, si offre al mio sguardo.

Rimango immobile, entrambe le mani sul carrello, a guardare e bere quella luce, 

una sagoma di cartone, armato di vettovaglie superflue, posizionato ai bordi di una esplosione nucleare, come avveniva nei test atomici degli anni cinquanta, nei deserti dell’Arizona.

Infine, ciabatto sferragliando con la spesa, avvolto dal Meraviglioso, verso la macchina.


Abbiamo medicine per ogni tipo di malattia, grazie al cielo, e medici per ogni forma di malessere, sia fisico che mentale.

Io, non so quale fosse il mio male, forse il Morbo dell’Ignominia nell’essere sopravvissuto, oppure la Febbre della Vergogna nell’avere desiderato di cedere. 

Non lo so.

Ma il vero miracolo è che io sia stato guarito da una immortale, millenaria Gorgone, in una isola dell’Egeo. 

Il vero mistero è che abbia realizzato di essere stato salvato all’uscita di un supermercato, immerso nei raggi dorati del Sole di Apollo.

mercoledì 3 marzo 2021

BISANZIO



Bisanzio è deserta, nella giornata tiepida di primavera.

Le sue imbattute mura si alzano immobili nella attesa dell'esercito che il Gran Turco ha predisposto per la sua conquista.

Dentro i palazzi dedicati agli Uffici Pubblici uno stuolo di burocrati stila le procedure del Protocollo da osservare in queste occasioni.

Con malcelata soddisfazione si fanno affiggere gli editti pomposamente redatti in un greco arcaico sempre meno comprensibile, mentre le folle che leggono lamentano la mancanza delle corse dei cavalli, interrotte da quasi due mesi.

Tutto tornerà alla normalità, affermano i ministri del culto, basta osservare le disposizioni.

Il caldo estivo farà disciogliere le truppe dell'invasore.

I teologi litigano ancora sopra la consustanzialità del Nume, mentre l'imperatore giace nascosto nella sua reggia, tra labirinti di anticamere e riti di abluzione.

Il mare del Bosforo brilla come se fosse un giorno normale: il giorno del popolo, dei prelati, le loro leggi complicate ed inutili, il rituale del potere che fissa perennemente allo sguardo il suo ombelico.

La città assediata nega il suo imminente crollo mente prepara le processioni del suo funerale.

A nessuno interessa il futuro, poiché è fatto di materia grezza, faticosa e volgare.

I televisori nelle case restano sempre accesi, dal momento che tutti prediligono la finzione scenica alla illusione della realtà.

Bisanzio è un atto di fede, disdegna il gesto pratico, preferisce schierarsi in fazioni: Blu o Verde per le gare dei carri, Uno o Trino per le gare dei teologi.

Il nemico attende alle porte.

Si domanda perplesso se c'è bisogno di lui, e quale il suo significato al cospetto di quelle mura.

E quale quello di Bisanzio, la sorda. Bisanzio la cieca, la ottusa, la antica disperata.

Poi, il primo cannone apre il fuoco contro quelle mura millenarie e tutto, la città, i turbanti nemici, le sacre Icone, le funzioni salmodiate, la porpora imperiale e i colori dei tifosi da stadio.

Tutto scompare nella polvere dei detriti che sgretolano, con troppe parole, la nostra Bisanzio.

martedì 2 marzo 2021

CLAUDIA IN BOLINA



La prima volta che l’ho vista io lo ricordo bene, ed è curioso, dal momento che  dimentico un volto nel giro di mezza giornata e il suo nome nel giro di pochi minuti... 


Entrò nel locale dopo il servizio, aveva una coppola in testa, un paltò verde scuro e un buffo paio di pantaloni alla zuava. 

Sembrava uscita da “Jules e Jim” di Truffaut, e mi guardò con quegli occhi vagamente a mandorla, quasi strafottenti, mentre una voce indecisa inciampava cauta nella richiesta di lavoro come cameriera. 

Le dissi di sì subito, e di presentarsi il sabato successivo. 

La guardai incamminarsi lungo il vicolo, i pollici piantati nelle tasche dei pantaloni,  

e pensai “Ecco Lucignolo, fatto e finito.” 

Improvvisamente mi sentii stanco. 

Avvertii che avevo stipulato un contratto affettivo, che quella persona mi sarebbe stata cara, e complicata, e difficile. 

Il mio socio di allora non fu particolarmente entusiasta, ma io fui irremovibile. 

Era capace di fracassare piatti e bicchieri in un crescendo wagneriano che stupiva sia me che i clienti del ristorante, che presto le diedero il soprannome de “Il bombardiere nero” per via del suo abbigliamento da lavoro. 

Ricordo che, durante un servizio a mezzogiorno, invocai disperatamente un esorcista, nel tripudio di stoviglie in pezzi e commensali lordati. 

Una sera fece volare un antipasto, infrangendo il piatto contro il muro. 

Una scheggia impazzita centrò il pollice di un avventore, facendolo zampillare come una focena colpita dall’arpione del baleniere. 

Nel tentativo di fermare l’emorragia ruppi una fiala di coagulante a mani nude e mi ferii la mano con il curioso risultato che eravamo in due a fiottare emoglobina sul pavimento. Cosa ancora più incomprensibile, i clienti le lasciarono la mancia. 

Quando inciampò con un vassoio, facendo volare posate e stoviglie, e un coltello trapassò un bicchiere a tulipano da degustazione e si conficcò nel calice senza romperlo, un silenzio reverenziale scese nella sala, e fu riposto come un Graal sopra la mensola dell’inspiegabile.

Litigavamo spesso, e furiosamente. Come un fratello litiga con la sorella. 

In effetti lei era per un terzo una figlia, un terzo una dipendente, un terzo una sorella. 

Ma, come per il Negroni, le proporzioni canoniche vanno sovvertite per avere un risultato ottimale. Così divenne sorella al 75%, e figlia/dipendente per il restante. 

Si accompagnava con uomini improponibili, schizoidi da manuale, che mi inducevano a crisi isteriche epocali. 

Quando andò via per seguire uno dei tanti casi umani ai quali dedicava inspiegabilmente il suo amore, mi rabbuiai oltre modo, e decisi di dimenticarla. 

In fondo, pensai, era la riprova che il mondo è insensato, e malvagio. 

Ma una provvida natura, nei panni di un velista bretone, ha spezzato questo incantesimo. E la riscopro, oggi, in una isola caraibica, incinta di sette mesi, e placida e felice, mentre mi chiede “Come lo chiamo, questo bambino?” E io le rispondo “Miracolo?”. 

E due bottiglie non bastano a sedare il mio stupore e la mia gioia.


La prima volta che l’ho vista, io lo ricordo bene. 

Sono vecchio, stanco e disincantato, ma lo ricordo bene. 

L’ho vista, e ho pensato che c’era del bello in questo mondo pazzo e assurdamente 

azzurro. 

E mi sono detto, assumila, vecchio coglione, perchè gli anni sono frecce e il tempo è un facile bersaglio, e tutti ci ritroviamo, alla fine, a realizzare che la nostra vita è fuggita da casa, mentre noi preparavamo il caffè, leggendo il giornale.

Aveva gli occhi di chi cerca qualcosa di più, e la timidezza di chi non vuole incomodare il mondo. 

Tra poco avrà un figlio cui insegnare come si approda, di bolina, ai propri sogni.

lunedì 1 marzo 2021

Z FOR ZOSTER



E’ passato tanto tempo che non ricordo nemmeno l’anno. 

Comunque, avevamo deciso di passare il capodanno a Venezia, trovammo ospitalità in uno scantinato della Giudecca, e partimmo, la solita eterogenea armata brancaleone di amici. 

Sul treno avvertii i primi fastidi alla guancia sinistra, ma non vi feci caso, poi, con il passare delle ore, si manifestò il dolore, tenue, persistente. 

Ci sistemammo nella squallida e fredda cantina, srotolando i sacchi a pelo. 

Passai una notte agitata, dolorante e indebolito. Il mattino seguente andai in farmacia, pensando ad un ascesso incipiente. 

Mi diedero una qualche compressa che, la notte successiva, mi creò la curiosa sensazione di sentirmi appeso al soffitto a testa in giù, come un pipistrello, imbozzolato nel mio sacco a pelo. 

Andava sempre peggio, adesso tutta la parte sinistra del viso bruciava al minimo soffio di vento, e il dolore era costante, monotono come un blues rurale di John Lee Hooker. 

Il 31 mattina ero veramente a pezzi. 

Piegato dalle fitte e febbricitante mi trascinai al pronto soccorso. 

Il medico, con un mezzo sorriso, mi disse “Complimenti, è Herpes Zoster, proprio allo scadere dell’anno” “Cos’è?” “Herpes Zoster, il Fuoco di Sant’Antonio. Ha attaccato il trigemino. Farà male” 

Uscii frastornato, il dolore mi fece entrare in una chiesa per sedermi qualche minuto al coperto. Un organista provava una fuga di Bach. 

Accovacciato contro una colonna fui grato di tanta bellezza. Se fossi stato in salute non avrei apprezzato. 

Quella notte, dopo diverse scorribande, rimasi solo a camminare per le calli. 

Una nebbia alchemica saliva dai canali, mentre contemplavo quello scenario da fiaba appoggiato ad un ponte. Mi ero legato una sciarpa intorno alla faccia, come una grottesca vecchia stampa dei mal di denti ottocentesca, e stavo lì, inebetito a guardare la nebbia evaporare nel silenzio. 

Fu allora che lo vidi, sul ponte dirimpetto al mio. 

Alto e grosso, avvolto in un enorme mantello nero, un cappello altrettanto nero a oscurare il volto. Intravedevo solo la barba grigia, il lungo sigaro Churchill serrato tra i denti, un balenare di luce negli occhi, mentre mi osservava. 

Restai di sasso, non poteva essere vero, non poteva essere lui. 

Eppure era tale e quale, identico ai fotogrammi di “F for fake”, mentre si stagliava contro il paesaggio da cartolina della Serenissima. 

Non sapevo che fare, ma volevo sincerarmi, volevo raggiungerlo per chiedere “Scusi, ma Lei è Orson Wells?”. Lo avrei fermato toccando il pastrano, come un devoto tocca il mantello del santo, gli avrei detto che avevo visto Quarto Potere una dozzina di volte, e, santo dio, che genio era, che immenso genio era per creare un’opera simile! 

Ci muovemmo quasi nello stesso istante. 

Nel momento in cui decisi di avvicinarlo lui si incamminò caracollando malfermo. Sembrava più piccolo, ora, e così incerto, e stanco. 

E solo. 

Mi arrestai quasi subito. Quell’uomo visibilmente ubriaco mi aveva procurato così tanto stupore, e ammirazione e gioia. 

Non meritava davvero il guaire pietoso di un ammiratore rapace ed estasiato. 

Lo guardai sparire nella nebbia, pensando malinconicamente che poteva essere una inquadratura perfetta.

Quella notte imparai come si ama da lontano, di nascosto. 

Non ho quasi mai raccontato questo incontro. E poi, a chi, e per quale motivo. 

Non sono nemmeno sicuro fosse lui, o un turista danaroso e vanesio. 

Ma in notti come queste, quando ho bevuto troppo e barcollo sulla via di casa, mi ritrovo a sorridere, mentre penso “Non sono ubriaco, no. Sto solo imitando la camminata di Orson Wells, a Venezia.”

Ritornato a Genova, il mio medico, con sguardo preoccupato confermò “E’ proprio Fuoco di Sant’Antonio” poi sorridendomi “Guardiamo il lato positivo. Non ha attaccato l’occhio, se no erano guai!” 

Il giorno dopo il virus era nell’occhio. Ma, questa, è un’altra storia...

MEZZAPORZIONE

Mezzaporzione arrivò come uno dei tanti lavapiatti da quell’intrigo subdolo di vicoli sporchi e depravati che tanto piacciono al turista in ...