giovedì 25 marzo 2021

AMICO DI IERI



La sua voce al telefono di prima mattina è un reperto fossile di un milione di anni fa, e mi chiede se mi ha svegliato. 

No, gli rispondo, va tutto bene. 

E’ solo un paradosso del tempo, una sveglia telefonica impostata decenni indietro e che mi desta dal sonno oggi - ma questo non lo dico, lo penso soltanto - è solo quel conato dal passato, quando c’era lei e la mia vita era sempre nei guai, come ora, ma con altri personaggi.

Sta venendo a Genova, mi dice: prendiamoci un caffè. E perchè no, caro il mio amico di ieri, prendiamoci un caffè.

Prendiamoci un caffè per parlare di affari, per parlare di donne, per parlare di ciò che eravamo e, quindi, per parlare di niente.

Si guardano i culi delle ragazze che passano, si ricordano i culi delle ragazze passate: noi si prende un dannato caffè, con le frasi fatte, le allegre storielle, e, dopo una breve pausa, il ricordo di lei, accennato con un sorriso imbarazzato e subito inumato nel posacenere insieme alla salma di un sigaro.

I grandi progetti in tazza piccola, le piccole filosofie in tazza grande, il qui e adesso contro il laggiù e l’allora di trenta anni fa. E, comunque, va sempre tutto bene, ci mancherebbe.

La gente distratta consuma al banco, paga e va via - dopo di lei, prego -

Piccioni impettiti pascolano tra i tavoli, pomposi come diplomatici ad un rinfresco in Ambasciata. 

Una vecchia dama dai capelli turchini allatta a cappuccino e brioche i suoi Carlini in collare Vuitton, si guarda intorno come se aspettasse qualcuno -  lui doveva arrivare dieci anni fa, signora, ma ha avuto un contrattempo ventenne da cinquecento euro la botta, con albergo quattro stelle e massima riservatezza -

Anche la mia disperazione è in ritardo, arriva trafelata al tavolo proprio quando lui mi dice che devo iniziare a volermi bene. Le bustine di zucchero multiculturale si accasciano sul tavolo, surclassate da quel luogo comune più triste del loro vestito equosolidale. 

Una canea di clacson si ostina a suonare per fare crollare le bibliche mura di Genova.

Lontano, sul mare, guardo le nuvole di quei giorni remoti, quando c’era ancora lei, e tutto naufragava a gonfie vele.

Proprio così, amico di ieri, devo ancora imparare a volermi bene, ad amare queste vecchie ossa, queste cicatrici di battaglie trionfalmente perdute, come quel cadavere di amore lasciato marcire in pasto ai vermi del rimorso. Devo proprio imparare a diventare sconfitto definitivamente e guardarmi allo specchio con tenerezza, la bava di un sorriso alla bocca e lo sguardo meravigliato di chi ha abbracciato la fede degli antidepressivi  in confezione da dodici, come gli apostoli.

La prossima volta che telefonerai, tra un milione di anni,  ti prometto che vestirò quel completo arlecchino che mi hai consigliato: un colore per tutto, dal matrimonio al funerale, una pezza su ogni ricordo.

Torneremo a bere un caffè, a parlare di affari, di donne, di niente, per evitare di parlare di lei.

E ti prometto che mi vorrò bene, per allora, amerò ogni singola colpa, mi perdonerò anche gli errori che non ho commesso, ma che progetto fiduciosamente per il futuro. 

Fingerò persino di guardare i culi delle donne con quel genere di sorriso ammiccante che fa tanto simpatico, fasullo come quello del cassiere quando gli lasci il resto, e ci augura una buona giornata.


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