E’ passato tanto tempo che non ricordo nemmeno l’anno.
Comunque, avevamo deciso di passare il capodanno a Venezia, trovammo ospitalità in uno scantinato della Giudecca, e partimmo, la solita eterogenea armata brancaleone di amici.
Sul treno avvertii i primi fastidi alla guancia sinistra, ma non vi feci caso, poi, con il passare delle ore, si manifestò il dolore, tenue, persistente.
Ci sistemammo nella squallida e fredda cantina, srotolando i sacchi a pelo.
Passai una notte agitata, dolorante e indebolito. Il mattino seguente andai in farmacia, pensando ad un ascesso incipiente.
Mi diedero una qualche compressa che, la notte successiva, mi creò la curiosa sensazione di sentirmi appeso al soffitto a testa in giù, come un pipistrello, imbozzolato nel mio sacco a pelo.
Andava sempre peggio, adesso tutta la parte sinistra del viso bruciava al minimo soffio di vento, e il dolore era costante, monotono come un blues rurale di John Lee Hooker.
Il 31 mattina ero veramente a pezzi.
Piegato dalle fitte e febbricitante mi trascinai al pronto soccorso.
Il medico, con un mezzo sorriso, mi disse “Complimenti, è Herpes Zoster, proprio allo scadere dell’anno” “Cos’è?” “Herpes Zoster, il Fuoco di Sant’Antonio. Ha attaccato il trigemino. Farà male”
Uscii frastornato, il dolore mi fece entrare in una chiesa per sedermi qualche minuto al coperto. Un organista provava una fuga di Bach.
Accovacciato contro una colonna fui grato di tanta bellezza. Se fossi stato in salute non avrei apprezzato.
Quella notte, dopo diverse scorribande, rimasi solo a camminare per le calli.
Una nebbia alchemica saliva dai canali, mentre contemplavo quello scenario da fiaba appoggiato ad un ponte. Mi ero legato una sciarpa intorno alla faccia, come una grottesca vecchia stampa dei mal di denti ottocentesca, e stavo lì, inebetito a guardare la nebbia evaporare nel silenzio.
Fu allora che lo vidi, sul ponte dirimpetto al mio.
Alto e grosso, avvolto in un enorme mantello nero, un cappello altrettanto nero a oscurare il volto. Intravedevo solo la barba grigia, il lungo sigaro Churchill serrato tra i denti, un balenare di luce negli occhi, mentre mi osservava.
Restai di sasso, non poteva essere vero, non poteva essere lui.
Eppure era tale e quale, identico ai fotogrammi di “F for fake”, mentre si stagliava contro il paesaggio da cartolina della Serenissima.
Non sapevo che fare, ma volevo sincerarmi, volevo raggiungerlo per chiedere “Scusi, ma Lei è Orson Wells?”. Lo avrei fermato toccando il pastrano, come un devoto tocca il mantello del santo, gli avrei detto che avevo visto Quarto Potere una dozzina di volte, e, santo dio, che genio era, che immenso genio era per creare un’opera simile!
Ci muovemmo quasi nello stesso istante.
Nel momento in cui decisi di avvicinarlo lui si incamminò caracollando malfermo. Sembrava più piccolo, ora, e così incerto, e stanco.
E solo.
Mi arrestai quasi subito. Quell’uomo visibilmente ubriaco mi aveva procurato così tanto stupore, e ammirazione e gioia.
Non meritava davvero il guaire pietoso di un ammiratore rapace ed estasiato.
Lo guardai sparire nella nebbia, pensando malinconicamente che poteva essere una inquadratura perfetta.
Quella notte imparai come si ama da lontano, di nascosto.
Non ho quasi mai raccontato questo incontro. E poi, a chi, e per quale motivo.
Non sono nemmeno sicuro fosse lui, o un turista danaroso e vanesio.
Ma in notti come queste, quando ho bevuto troppo e barcollo sulla via di casa, mi ritrovo a sorridere, mentre penso “Non sono ubriaco, no. Sto solo imitando la camminata di Orson Wells, a Venezia.”
Ritornato a Genova, il mio medico, con sguardo preoccupato confermò “E’ proprio Fuoco di Sant’Antonio” poi sorridendomi “Guardiamo il lato positivo. Non ha attaccato l’occhio, se no erano guai!”
Il giorno dopo il virus era nell’occhio. Ma, questa, è un’altra storia...
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