martedì 2 marzo 2021

CLAUDIA IN BOLINA



La prima volta che l’ho vista io lo ricordo bene, ed è curioso, dal momento che  dimentico un volto nel giro di mezza giornata e il suo nome nel giro di pochi minuti... 


Entrò nel locale dopo il servizio, aveva una coppola in testa, un paltò verde scuro e un buffo paio di pantaloni alla zuava. 

Sembrava uscita da “Jules e Jim” di Truffaut, e mi guardò con quegli occhi vagamente a mandorla, quasi strafottenti, mentre una voce indecisa inciampava cauta nella richiesta di lavoro come cameriera. 

Le dissi di sì subito, e di presentarsi il sabato successivo. 

La guardai incamminarsi lungo il vicolo, i pollici piantati nelle tasche dei pantaloni,  

e pensai “Ecco Lucignolo, fatto e finito.” 

Improvvisamente mi sentii stanco. 

Avvertii che avevo stipulato un contratto affettivo, che quella persona mi sarebbe stata cara, e complicata, e difficile. 

Il mio socio di allora non fu particolarmente entusiasta, ma io fui irremovibile. 

Era capace di fracassare piatti e bicchieri in un crescendo wagneriano che stupiva sia me che i clienti del ristorante, che presto le diedero il soprannome de “Il bombardiere nero” per via del suo abbigliamento da lavoro. 

Ricordo che, durante un servizio a mezzogiorno, invocai disperatamente un esorcista, nel tripudio di stoviglie in pezzi e commensali lordati. 

Una sera fece volare un antipasto, infrangendo il piatto contro il muro. 

Una scheggia impazzita centrò il pollice di un avventore, facendolo zampillare come una focena colpita dall’arpione del baleniere. 

Nel tentativo di fermare l’emorragia ruppi una fiala di coagulante a mani nude e mi ferii la mano con il curioso risultato che eravamo in due a fiottare emoglobina sul pavimento. Cosa ancora più incomprensibile, i clienti le lasciarono la mancia. 

Quando inciampò con un vassoio, facendo volare posate e stoviglie, e un coltello trapassò un bicchiere a tulipano da degustazione e si conficcò nel calice senza romperlo, un silenzio reverenziale scese nella sala, e fu riposto come un Graal sopra la mensola dell’inspiegabile.

Litigavamo spesso, e furiosamente. Come un fratello litiga con la sorella. 

In effetti lei era per un terzo una figlia, un terzo una dipendente, un terzo una sorella. 

Ma, come per il Negroni, le proporzioni canoniche vanno sovvertite per avere un risultato ottimale. Così divenne sorella al 75%, e figlia/dipendente per il restante. 

Si accompagnava con uomini improponibili, schizoidi da manuale, che mi inducevano a crisi isteriche epocali. 

Quando andò via per seguire uno dei tanti casi umani ai quali dedicava inspiegabilmente il suo amore, mi rabbuiai oltre modo, e decisi di dimenticarla. 

In fondo, pensai, era la riprova che il mondo è insensato, e malvagio. 

Ma una provvida natura, nei panni di un velista bretone, ha spezzato questo incantesimo. E la riscopro, oggi, in una isola caraibica, incinta di sette mesi, e placida e felice, mentre mi chiede “Come lo chiamo, questo bambino?” E io le rispondo “Miracolo?”. 

E due bottiglie non bastano a sedare il mio stupore e la mia gioia.


La prima volta che l’ho vista, io lo ricordo bene. 

Sono vecchio, stanco e disincantato, ma lo ricordo bene. 

L’ho vista, e ho pensato che c’era del bello in questo mondo pazzo e assurdamente 

azzurro. 

E mi sono detto, assumila, vecchio coglione, perchè gli anni sono frecce e il tempo è un facile bersaglio, e tutti ci ritroviamo, alla fine, a realizzare che la nostra vita è fuggita da casa, mentre noi preparavamo il caffè, leggendo il giornale.

Aveva gli occhi di chi cerca qualcosa di più, e la timidezza di chi non vuole incomodare il mondo. 

Tra poco avrà un figlio cui insegnare come si approda, di bolina, ai propri sogni.

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