martedì 23 febbraio 2021

LETTERA



Le cose che ti volevo dire, le cose che ti volevo dire.

Quelle frasi rafferme, biscotti dimenticati troppe notti sul comodino, tra un mezzo toscano e un rigurgito di Campari.

Quei guaiti al fruttosio, quei diabetici pentimenti via insulina, assunti in veglie livide di paura.

Tu avresti letto il foglio con un lieve tremore alla guancia, perdonandomi, nella frase rassegnata: come scrivi bene.

Il figliol prodigo ritorna! Ammazzate il vitello tonnato della domenica, con la tavola in bicchieri di cristallo di Baccarat e i parenti defunti sopra il televisore!

Ti ho risparmiato la pena da scontare ai perdoni forzati, la lacrima, il singulto nell’abbraccio al tuo carnefice, mentre ti trapassa, la benedizione a Caino, l’assoluzione post mortem ai miei peccati, il miracolo del tuo sangue che si scioglie nel mio.

Ti ho risparmiato per codardia, per ribellione, per disperata superbia.

Quella sera lo scrittore nordico ci disse: noi non siamo come voi, una volta commesso il peccato, la colpa è per sempre. 

E tutti a toccarci i coglioni irridendo il castigo che scontiamo ogni istante.

Le cose che avrei voluto dirti, le cose che avrei potuto dirti.

Quelle, lo sai, sono racchiuse nel silenzio di una nostra passeggiata in Via Garibaldi.

Ogni giorno cammino quelle parole mute, tornando a casa. 

Qualche volta mi auguro di riuscire a consumarle, nei passi di tutta la vita.

Poi mi volto, a controllare il selciato ruvido.

Non vedo traccia, né di te né di me.

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