mercoledì 24 febbraio 2021

PUGAINO



La sua forma a punto interrogativo mi ricordava ogni giorno di chiedermi che cosa ci facessi, io, là in mezzo.

La roncola era l’accessorio essenziale del nostro lavoro, ma tutti la si chiamava pugaino, come da dialetto locale sancito.

La si portava dietro la schiena, agganciata al supporto di ferro che si infilava nella cintura dei pantaloni e dal nome ancor più poetico: poveruomo.

Così, il punto interrogativo affilato era sospeso alla vita del povero uomo.

Con il pugaino ci sollevavi i tronchi sramati, oppure lo usavi per arrampicarti sugli alberi alti, piantandolo sul fusto come scalino.

In ultimo, non era neanche male per risolvere impicci, come una vipera che sbuca da una fascina di legna o un cane rabbioso che si fa troppo vicino.

Lo scatto secco, quel suono metallico che produceva uscendo dal poveruomo, era la canzone ritmata delle nostre giornate. Era la domanda incessante e e monotona sul nostro essere lì, ad ansimare tra un fosso di rovi e un dirupo, tagliando alberi.

Le nostre mani portavano i segni delle ingiurie del clima e della natura.

Guardo le mie dita di oggi, nel tenere la penna, e mi sembrano esangui appendici, 

estranee nel ricordo di quello che erano, indurite dai tagli e gonfie per le spine di acacia.

Il tempo è passato, e, di allora, ho ricordi confusi, lampi di immagini come memoria sensoriale, un animale che tiene traccia e dolore delle ferite subite.

Ma quel pugaino, che si interroga sul suo essere al mondo, incastrato tra i rami, ancora resta appeso alla mia cintura, alla mia vita.

Ancora la domanda scatta dal poveruomo che sono, nel suo canto di ferro, e ancora non trova risposta.


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