E’ facile capire il piano dello studio legale, in ascensore: è il tasto più consumato di tutti.
Migliaia di dita, con i loro rancori, le paure e le speranze hanno pigiato quel numero.
Forse solo uno studio medico potrebbe fargli concorrenza, ma, curiosamente, ho notato che dottori ed avvocati raramente dividono gli stessi palazzi.
Probabilmente hanno paura di una concorrenza sleale di cause e ricoveri.
Comunque, ultimamente, è proprio sull’ascensore che lo incontro. Come al solito fingiamo di ignorarci, ma ci studiamo di sottecchi. Lo conosco da una vita, eppure ci siamo parlati poche volte. Osservo che è invecchiato, più grasso e ingrigito, lui mi guarda con un certo rancore - i suoi vestiti così ordinari, le spalle più curve -.
Ci tocca fare questa salita insieme, intimi estranei, in un silenzio imbarazzato.
Lo ricordo, venti o trenta anni fa, più energico, a volte quasi arrogante, e mi scopro intenerito da questo ometto, coetaneo, oggi così insulso.
Vorrei chiedergli cosa gli è capitato, quale è stato il colpo, fra i tanti, che lo ha segnato, che ha iniziato a farlo vacillare.
Vorrei chiedergli perchè è ancora in piedi, ritto su gambe malferme, e cosa aspetta a gettare la spugna, quale fine di round sta sperando.
Eppure, ancora una volta, non ci parliamo.
La nostra sprezzante alterigia è ormai diventata una sorte di tacita unione, una pervicace resistenza l’uno contro l’altro. Non ci siamo mai trovati simpatici, si sa.
Non cambiamo opinione oggi, per pietà o debolezza.
Le porte si aprono. Lo guardo suonare il campanello in ottone.
Una donna, in tailleur nero e nera scarpa, lo saluta, senza sorridere: “Buona sera signor Cavanna, l’avvocato arriva subito.”
Io resto imprigionato nello specchio a figura intera.
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