Le mani severe di mia madre, energiche, che mi spalmano strati su strati di crema solare, una tortura infinita per un bimbetto di sette anni in costumino di spugna e infradito.
Poi, finalmente, il supplizio termina, e posso correre sulla spiaggia, cappellino di tela, secchiello e retino. Mi siedo a filo d'acqua cercando di catturare i piccoli granchi, mentre si fanno trasportare dalla risacca. Imparo presto a lasciare il retino immobile, e aspetto che siano loro ad entrare e uscire dalle maglie che li imprigionano per pochi attimi.
Che storie avete da raccontarmi? Li osservo, scoprendo la noia delle piccole creature.
Il giorno seguente, molto presto di mattina, mentre indago il bagnasciuga, mi imbatto in una stella marina. Grassa, rossa, arenata sulla sabbia, è una scoperta impossibile, per un piccolo bimbo. Baldanzoso la ghermisco con il retino, e la butto nel secchio colmo di acqua marina.
E corro, corro fiero come un cacciatore del Neolitico, per portare la mia preda alle lusinghe degli adulti - Ma che bravo! Ma come sei abile! -
E, quando ritrovo l'ombrellone familiare, ecco che la stella si è rotta in quattro parti, e mi sento così stupido, così triste.
Li sto osservando da qualche minuto, mentre leggono il menù esposto all'entrata del ristorante.
Sicuramente padre, madre e figlia. Facce larghe, occhi chiari. "Russi" borbotto tra me, mentre stanno entrando, il padre mi lancia un buongiorno con tono da Perestrojika.
Buongiorno a voi, clienti turisti che non capisco perché siate qui. Si siedono, senza sorridere.
La figlia parla inglese, e traduce le parole del padre. La madre, mi guarda, placida, compiaciuta del suo uomo, di sua figlia.
Arrivano da Omsk, lui studiò ingegneria in Italia, e sono tornati per una vacanza di mare e di Mediterraneo, piccoli granchi che si fanno trasportare sulla battigia.
Riscopro la noia delle storie già conosciute. Poi lui inizia a parlare in russo alla figlia, e lei, la vedo, è contrariata, ma lui insiste, dolcemente. Sono atterrati a Berlino, traduce rassegnata, perché avevano un qualcosa da fare. Lui parla sottovoce, calmo, mentre estrae il portafogli e pesca una vecchia foto malandata. Mi porge l'immagine. Un giovane in uniforme di fanteria sovietica, occhi chiari nel ritratto seppia, capelli corti colore stoppa sotto il berretto con stella rossa. Le mani di un ventenne che stringono il fucile. La sua mano sopra la foto, un dito indice che preme, la sua voce dolce, nella traduzione incrinata della figlia: "Mio nonno".
Guardo quel ragazzo, sembra Gagarin mentre cerca di non mostrarsi impaurito.
Suo nonno partì, come milioni, per la seconda guerra mondiale, lasciando un neonato e una giovane moglie. Non tornò indietro. Catturato dai nazisti, tradotto in un campo di concentramento, finì la sua breve vita senza rivedere la sua famiglia.
Ho letto qualcosa riguardo quel periodo, i tedeschi non erano certo indulgenti con i prigionieri russi. Lo so bene. I nostri occhi si incontrano per un attimo, e capisco che anche lui lo sa bene. Suo nonno, lui, non lo ha mai conosciuto, eppure lo ha sempre amato, come ama la sua terra, la sua famiglia. E così, finalmente, può arrivare al cimitero di Berlino, dove lui è sepolto, un nome tra i tanti.
Ora tira fuori il cellulare dalla tasca, la figlia traduce piano, monotona.
Lui mi mostra le fotografie di un prato, la stele con i nomi, e il suo sacchetto di terra, trasportato dalla Siberia fino in Germania. Ha volato con quel bagaglio, quei pochi etti di casa, per potere spargere il suo ricordo, il suo dolore, sopra una tomba anonima e, mi dice,
"Io sono grato ai tedeschi, hanno dato una buona casa a mio nonno, no, non odio nessuno".
I suoi occhi sono chini sul tavolo, le labbra contratte. Riconosco quella espressione,
l'ho incontrata in un documentario di veterani americani della battaglia di Midway, ricondotti da National Geographic nei luoghi dove i loro compagni morirono.
L'espressione di bambini annientati che ricacciano indietro le lacrime, se le mangiano e le risputano.
Il dolore che non riesce a trovare le parole.
Ora siamo tutti zitti. Sua moglie, di nascosto, gli afferra la mano.
"Dobbiamo bere dell'altro vino" affermo con un tono che vuole essere disinvolto.
Scendo in cantina e afferro la mia bottiglia di più amata.
Sono anni che aspetto di stapparla, il momento è arrivato. Brindiamo a suo nonno, a noi, alla vita. Parliamo del più e del meno. Quindi, si alzano e se ne vanno. Sparecchio i piatti, bevo ancora.
Ritornato in sala vedo, sopra il tavolo vuoto, una stella marina, rossa, come la stella del berretto.
So quello che devo fare. Delicatamente la prendo con il retino e la adagio nel secchiello di acqua di mare. Sono un bimbo di sette anni, ora, e scendo in cantina. Vado allo scaffale del vino, con un dito traccio il profilo di una porta inesistente e la apro.
Il mare e la spiaggia di tanti anni fa si mostrano.
Lascio la stella marina nel riflusso dell'onda, e la guardo allontanarsi in acque aperte.
Rincaso, in un pomeriggio assolato, camminando tra piccoli granchi che si affaccendano in piccole storie del quotidiano vivere.
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