Aveva fatto un foro nella visiera, all’altezza del lato sinistro della bocca, in modo di potere fumare le sue Nazionali senza filtro anche mentre usava la motosega.
Il suo volto grifagno, l’andatura eretta, mi ricordavano la posa di un senatore romano. Parlava a voce bassa, e, dopo avere ascoltato, esordiva sempre il suo punto di vista con la frase: “Io, nella mia ignoranza...”
Ero sempre contento di lavorare con lui, e adoravo il modo spiccio e fiero con cui risolveva i piccoli imbarazzi tra colleghi.
Una volta che insistetti per pagare i grappini lui non perse tempo in obiezioni da cerimoniale: appoggiato al bancone, gli occhi fissi alla rastrelliera delle bottiglie, portò il bicchiere alla bocca con la mano sinistra, mentre con la destra, senza sforzo apparente, mi diede una spinta che mi fece ruzzolare verso l’uscita.
Aveva un modo tutto suo di farsi volere bene, taciturno, mai esagerato nei modi, nei gesti, unito ad una laconica ironia.
Quando, alla visita medica, gli chiesero quante sigarette fumava al giorno, lui rispose: due o tre. Rientrati in macchina, mentre ingranava la marcia, concluse, borbottando: “pacchetti, intendevo.”
Sopportava stoicamente le mie incapacità sul lavoro. Talvolta, per non trascendere alla rabbia, spegneva la motosega, togliendosi il casco, e guardava nel cielo un falco, o una nuvola. Io mi rimpicciolivo, sapendo di avere commesso un altro errore.
Mi avrebbe spiegato tutto più tardi, con la sua voce roca e impercettibile.
Non era facile, per entrambi.
Quando arrivai a fare il boscaiolo non ero un novellino, diversi anni di vigna mi avevano preparato alla fatica, ma era niente confronto a questo. E comunque non mi perdonavano la scarsa intelligenza nel lavorare.
Tagliare alberi è un lavoro di concetto, di calcolo, di prospettiva: ho visto vecchi fare la tacca al tronco, quindi lanciare il cappello e fare cadere una quercia di cinque metri proprio lì sopra.
Io, per loro, ero un coglione, il Coglione, come spesso mi chiamavano.
Avevano ragione. Per due anni vissi in un mondo all’incontrario, dove io, con i miei libri, gli studi e le mie credenziali ero al limite del subnormale.
Mi trattavano male perché ero pericoloso, per me e per gli altri: non puoi permetterti errori con una motosega che ti squarcia la pancia quando sei in cima a un monte.
Quel giorno c’era nebbia, il terreno era viscido e tagliavamo acacie su una costa che dava sui piloni dell’alta tensione.
Feci la tacca e attaccai il fusto, la motosega che urlava lacerando le orecchie protette dalle cuffie.
Improvvisamente mi si parò di fronte, rischiando di essere tranciato dai denti della catena, e si puntellò sotto il tronco che stava per cadere.
Con orrore mi accorsi che stavo facendo crollare l’albero sui cavi dell’alta tensione. Bastava che un singolo ramo venisse in contatto e sarei rimasto folgorato.
Lui aveva il volto contratto nello spasimo dello sforzo, le vene delle tempie ingrossate, gli scarponi piantati nel fango. Poi eruppe in una feroce bestemmia mentre con una poderosa torsione del busto spostava il tronco sulla destra facendolo abbattere a filo dei cavi.
“Giannino, io…” Ansimando alzò il braccio, il pugno teso verso la mia faccia.
Ero impietrito, contrito, colpevole.
Ad un centimetro dal mio mento il pugno rallentò e le sue nocche nel guanto da lavoro mi sfiorarono la guancia, un sorriso stanco sulle sue labbra sottili.
Lo ricordo così, questa notte, mentre mi volta le spalle e accende la sigaretta.
Che poi ci è morto, di tutto quel fumare.
Mi hanno detto che sarà pesato trenta chili, alla fine, ma era ancora dritto e laconico, come uno spartano.
Ogni tanto leggo un qualche intellettuale che commenta sul popolino, incapace di questo, o di quello, ignorante e credulone, e mi verrebbe voglia di colpirlo, con la forza che avevo allora, quando ero il Coglione, e sopravvivevo ai giorni di lavoro grazie a chi avevo vicino.
Poi penso al suo sorriso mentre la sua mano mi sfiora, e mi sento un intellettuale stronzo.
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