venerdì 2 aprile 2021

MEZZAPORZIONE



Mezzaporzione arrivò come uno dei tanti lavapiatti da quell’intrigo subdolo di vicoli sporchi e depravati che tanto piacciono al turista in pellegrinaggio dei fior di letame nei giardini De Andrè.

La sua storia, come le altre: famiglia disagiata, alcol, precedenti penali.

La monotonia della piccola delinquenza è di una noia mortale, e per niente romantica.

Il nome misurava la sua altezza in centimetri, ma non la sua aggressività da Terrier, 

la sua ubriaca insensibilità al dolore e quell’intelligenza affilata.

Cercava qualcosa di meglio, per metterlo in culo al destino. 

Aspettava il momento della rivincita sul mondo, e lo giocò appena seppe che si liberava il posto da cuoco.

Trovai assurdamente vanesia e surreale quella versione grottesca di My fair lady. 

Il posto fu suo. 

Sapeva il mestiere, Mezzaporzione, il problema era il bere. 

Era arrivato a quel punto dove bastano pochi bicchieri, poi sei un altro.

Ma non mollava la presa, e la voglia di vendicarsi del mondo era più intossicante del brandy che tracannava dalla bottiglia mentre fiammava i gamberoni.

La sera che il direttore del Teatro della Fenice, di passaggio con amici, gli fece i complimenti l’alcol e la strada ebbero la meglio. 

Forse era inevitabile. 

Forse realizzò che era troppo difficile, o del tutto inutile, e non sarebbe mai entrato in quel mondo. 

Forse quel tavolo di intellettuali che lodava il suo lavoro scatenò la sua caduta  di mezzo angelo ribelle, immaginando quello che avrebbe potuto essere in altro contesto, con tristezza. 

Oppure con orrore.

Mezzaporzione se ne andò, una notte, lasciando un illeggibile corsivo di lettera di dimissioni, con bestemmie in stampatello e punti esclamativi in post scriptum.

E riprese la vita di prima.

Ci incontriamo spesso, all’angolo di qualche bicchiere di vino, e ci salutiamo, bevendo del più e del meno.


Qualche volta ho paura di aver nel sangue il troppo vino a buon mercato di questi vicoli, troppi ratti, troppi tossici, alcolizzati, ladri, puttane, spacciatori.

E dico che mi dovrei disintossicare. 

Ma, come Catullo, odio e amo questo mosto di storie, di rabbia, dolore, anarchia e miseria.

Che poi, è un altro modo per dirmi che sono ancora vivo. 


giovedì 25 marzo 2021

AMICO DI IERI



La sua voce al telefono di prima mattina è un reperto fossile di un milione di anni fa, e mi chiede se mi ha svegliato. 

No, gli rispondo, va tutto bene. 

E’ solo un paradosso del tempo, una sveglia telefonica impostata decenni indietro e che mi desta dal sonno oggi - ma questo non lo dico, lo penso soltanto - è solo quel conato dal passato, quando c’era lei e la mia vita era sempre nei guai, come ora, ma con altri personaggi.

Sta venendo a Genova, mi dice: prendiamoci un caffè. E perchè no, caro il mio amico di ieri, prendiamoci un caffè.

Prendiamoci un caffè per parlare di affari, per parlare di donne, per parlare di ciò che eravamo e, quindi, per parlare di niente.

Si guardano i culi delle ragazze che passano, si ricordano i culi delle ragazze passate: noi si prende un dannato caffè, con le frasi fatte, le allegre storielle, e, dopo una breve pausa, il ricordo di lei, accennato con un sorriso imbarazzato e subito inumato nel posacenere insieme alla salma di un sigaro.

I grandi progetti in tazza piccola, le piccole filosofie in tazza grande, il qui e adesso contro il laggiù e l’allora di trenta anni fa. E, comunque, va sempre tutto bene, ci mancherebbe.

La gente distratta consuma al banco, paga e va via - dopo di lei, prego -

Piccioni impettiti pascolano tra i tavoli, pomposi come diplomatici ad un rinfresco in Ambasciata. 

Una vecchia dama dai capelli turchini allatta a cappuccino e brioche i suoi Carlini in collare Vuitton, si guarda intorno come se aspettasse qualcuno -  lui doveva arrivare dieci anni fa, signora, ma ha avuto un contrattempo ventenne da cinquecento euro la botta, con albergo quattro stelle e massima riservatezza -

Anche la mia disperazione è in ritardo, arriva trafelata al tavolo proprio quando lui mi dice che devo iniziare a volermi bene. Le bustine di zucchero multiculturale si accasciano sul tavolo, surclassate da quel luogo comune più triste del loro vestito equosolidale. 

Una canea di clacson si ostina a suonare per fare crollare le bibliche mura di Genova.

Lontano, sul mare, guardo le nuvole di quei giorni remoti, quando c’era ancora lei, e tutto naufragava a gonfie vele.

Proprio così, amico di ieri, devo ancora imparare a volermi bene, ad amare queste vecchie ossa, queste cicatrici di battaglie trionfalmente perdute, come quel cadavere di amore lasciato marcire in pasto ai vermi del rimorso. Devo proprio imparare a diventare sconfitto definitivamente e guardarmi allo specchio con tenerezza, la bava di un sorriso alla bocca e lo sguardo meravigliato di chi ha abbracciato la fede degli antidepressivi  in confezione da dodici, come gli apostoli.

La prossima volta che telefonerai, tra un milione di anni,  ti prometto che vestirò quel completo arlecchino che mi hai consigliato: un colore per tutto, dal matrimonio al funerale, una pezza su ogni ricordo.

Torneremo a bere un caffè, a parlare di affari, di donne, di niente, per evitare di parlare di lei.

E ti prometto che mi vorrò bene, per allora, amerò ogni singola colpa, mi perdonerò anche gli errori che non ho commesso, ma che progetto fiduciosamente per il futuro. 

Fingerò persino di guardare i culi delle donne con quel genere di sorriso ammiccante che fa tanto simpatico, fasullo come quello del cassiere quando gli lasci il resto, e ci augura una buona giornata.


martedì 23 marzo 2021

RITRATTO DI FAMIGLIA IN UN ACQUARIO



Lei ha un sorriso inerte, anestetizzato dai colori pastello di un qualche anti depressivo di ultima generazione, mentre, con occhi vuoti come i bicchieri che ho trangugiato questa notte, mi ordina una pasta al burro per il figlio più piccolo. 

Lui ha la disinvoltura di quegli uomini sulla quarantina che vogliono dimostrare di essere perfettamente in forma, ancora giovani, assennati, ma con un che di spirito ribelle. 

Pregasi notare il filo di palestra, sotto i tatuaggi in stile yakuza giapponese.

I bambini, seri ed annoiati, ci tengono ad atteggiarsi a figli di un Briatore minore. 

Se potessero mi esibirebbero un libretto di assegni. Della Banca di Topolinia, data l’età.

Non sono particolarmente disturbanti, una famigliola turistica che ha smarrito il sentiero di mattoni d’oro, e si ritrova accidentalmente in questo posto, ma mi procurano uno strano senso di disagio.

Mi domando a lungo, mentre porto piatti fra i tavoli, che cosa mi inquieta nella loro presenza.

Hanno sicuramente visitato l’Acquario, in una gita festiva per grandi e piccini. 

La loro felicità di plastica, usa e getta, riverbera su di me la vecchia domanda: in fondo, non siamo tutti uguali? 

Non ci illudiamo tutti di avere un significato, uno scopo? Non ci atteggiamo tutti nei panni di una serenità artefatta, chi con una gita al mare, chi con la vacanza culturale, chi, come me, nella propensione agli alcolici e alle ore piccole?

In epoca medioevale erano comuni i dipinti di tre giovani cavalieri, nobili ed agiati, che si imbattevano in altri tre cavalieri con le carni putrefatte, i vestiti a brandelli, le occhiaie vuote.

Con orrore scoprivano che erano di fronte alle loro immagini, deturpate dal tempo e dalla morte.

Oggi, in questa epoca di divertimento preconfezionato, di felicità obbligatoria, di processioni di turisti in fila come vermi, che inalberano al posto dei crocefissi i loro bastoni da selfie - i cellulari orizzontali, come una croce - questa famiglia disvela il mio destino, il destino di tutti, tra Prozac, alcol, centri benessere e partitella a calcetto. 

Quando escono dimenticano sul tavolo la foto ricordo scattata all’Acquario. 

Sono in posa, seri, nei loro sgargianti vestiti sportivi. Nessuno ride. 

Il geniale marketing dell’Acquario di Genova li ha incorniciati tra le fauci dentate di uno squalo bianco. 

Sollevo il cartoncino fustellato con l’immagine, e rido amaramente, mentre penso che è proprio così: siamo tutti lì, composti e quasi tristi, nella bocca del pescecane, come Pinocchio. 

Aspettiamo che le poderose mascelle si chiudano su di noi.

Chissà, forse l’ufficio marketing dell’Acquario, oggi, prende il posto della pittorica medioevale. 

sabato 20 marzo 2021

NOBLESSE OBLIGE



Millantava una fraterna amicizia con Manuel Vazquez Montalban, comunque impossibile da comprovare, essendo lo scrittore deceduto. 

Vantava non ricordo quali titoli nobiliari, ascritti alla moglie, che precedeva trionfalmente all'entrata del ristorante, facendo spazio alla sua apparizione, ieratica come una diva del muto, con i suoi enormi cappelli popolati di penne di fagiani, pernici, pavoni, tanto che mi figuravo quei copricapo iscritti all'elenco nazionale delle Oasi Protette e fantasticavo che le stole che avvolgevano la sua figura fossero volpi ed ermellini caduti nel sonno, dopo lunghe razzie tra i volatili del suo cappello. 

Mi trattavano con un benigno disprezzo, la indulgente alterigia di chi sa, ahimè, che non esistono più buoni servitori, e ci si deve contentare. 

Lui condivideva con me piccanti rivelazioni su amanti di lui e di lei con la naturalezza del gentiluomo che scambia due parole frivole con il venditore di frutta o di giornali. Mai, però, mi avrebbe parlato di musica o letteratura, perché, a suo avviso, mondi ci separavano. 

Erano estinti come un fossile del Cambriano e la mia bonaria sufficienza incartava la loro, senza che se ne avvedessero. 

Poveri anziani manichini con le loro polverose regole di bon ton, che non sapevano di essere morti, fucilati insieme ai Romanoff dalla Armata Rossa, affondati con la prima classe del Titanic, esiliati con il loro re dal referendum per la Repubblica. 

Quella sera avevano riservato un tavolo per otto e lui era giunto prima degli altri, in compagnia di una amica della moglie. 

Si erano seduti, ordinando spumante nell'attesa. 

Ad un certo punto tutta la sala ascoltò la voce di lei urlargli: "Non tollero che tu parli di lei! Non devi nominarla! Villano, non sai che non si parla di un'altra donna quando si è con una gentildonna?" 

Stupiti per l'insolito tono di voce, ci ritrovammo tutti a considerare questo punto di vista. L'espressione di perplesso "Ah, non sapevo!" era stampata su ogni cliente.

Nel frattempo lei, a chiosa della sua lezione di galateo, gli gettò in faccia tutto il bicchiere di vino. 

Un silenzio teso ed imbarazzato ci avvolse tutti. Eravamo a guardarlo, bocca aperta, senza neanche far finta di niente, muti e curiosi. 

Lui si alzò in piedi. Con estrema, elegante nonchalance, estrasse la pochette dal taschino, si asciugò il viso. Poi, rivolto a tutti noi, con tono discreto disse: "Chiedo scusa, è colpa mia." 

Non ci fu uomo che non provò una fervente ammirazione per lui e non ci fu donna che non avvertì gratitudine per lei.

Credo ne uscimmo tutti un po' migliori.


Certo, oggi siamo più liberi, svincolati da noiose etichette, siamo liberi di vomitarci addosso insulti e sgarbi, liberi di nuocere, di prevaricare. 

Certo abbiamo giustiziato la nobiltà ma, nell'entusiasmo della ghigliottina, abbiamo decapitato anche la Grazia.

E così quelle figure, atteggiate a pose da opera mozartiana, dileguano nei ricordi e il Nuovo avanza tra suonerie telefoniche e messaggi vocali ascoltati a tutto volume.

martedì 16 marzo 2021

MEA, PER GLI AMICI



Bevendo ouzo, considera malinconicamente le sue origini.

Viene da una città arcigna e matrigna, dove il suo destino è stato deciso già dai tempi del liceo: la giusta sezione, la giusta compagna di banco.

Una città dove le figlie vestivano come le madri - cerchietto e borsetta - e la ribellione adolescenziale era codificata dalla gonna un centimetro sopra il ginocchio.

E poi, più avanti negli anni, pantalone rosso su mocassino scamosciato per lui, e una pletora di storpiature onomastiche per lei: Pupi, Chicca, Lolli, Margi, Clo, Steffi…

Mea, il suo nome di battesimo in società. 

La nausea che prova in queste considerazioni va giudiziosamente attribuita all’ouzo, alla calda serata egea e a quella Penelope interiore, soffocata dal tessere regole, ruoli e carriera.

E’ riuscita a fuggire per qualche giorno dal suo labirinto, come Dedalo, grazie ad un paio di ali low cost.

Air Meltemi l’ha trascinata per quel cielo cicladico fino a posarla su quel tavolino al tramonto sul mare. Domani ritornerà nella sua prigione di strade di ardesia.

Quell’uomo dagli occhi pensosi tra poco le parlerà in quella lingua che non comprende e stranamente riconosce, che la richiama all’onusto Vocabolario Rocci e alle versioni di greco antico nel silenzio sacrale della Prima Sezione del Primo Liceo della Quarta Ginnasio, nella decima giornata grigia di pioggia.

Lui ha la pelle colore del legno, un sorriso lieve, e le sta chiedendo qualcosa.

La Penelope ribelle dentro di lei, quella che disfa voluttuosamente ogni notte l’ordito della trama stabilita dal destino, ha già capito tutto, e tutto vede.

Non tornerà mai più indietro.

Non ci saranno mai più sabato sera in casa di amici, a giocare a Risiko, a compilare liste nozze per Pupi, Chicca, Lolli, all’ombra di esauste librerie in noce con la cornucopia in argento sul tavolo mogano e le cornici dei parenti in cristallo.

Penelope sorride, selvaggia e feroce, mentre lei gli accende la sigaretta.

In quella piccola fiamma la città tutta di Ilio d’ardesia prende fuoco nella notte stellata.

Per gioco di luce, il cavallo dal manto colore di legno degli Achei pare abbia un lieve sorriso, e occhi pensosi.

lunedì 15 marzo 2021

IL MARE E GLI AMICI

Anche questa volta l’ho mancata. Avevo da fare, avevo da fare. 

Le piccole burocrazie del quotidiano vivere, che poi è il quotidiano morire.

La mareggiata era a gridare, a poca distanza, e ho sentito il suo urlo solo nei video onnipresenti della nostra esistenza mediatica. 

Pornografia sgranata e volgare al posto della passione e dell’amore.

Di malumore, deluso di me stesso, ho pensato a quella notte di quaranta anni fa, e ai vecchi amici.

Eravamo al limite dei colpi delle onde, soffocati dal salino e dal vento, e dal rumore ossessivo del mare. La vita, misteriosa e terribile, infuriava di fronte a noi. 

Un solo passo in avanti e ci avrebbe condotti per mano alla morte. 

Tutto era confuso e noi ridevamo forte la nostra paura.

Tutto era confuso, e noi, confusi negli anni di gioventù, ci sentivamo a casa, la casa dei naufraghi, orribile e sconfinata oltre gli scogli.

Restammo a lungo, immobili contro il vento, a misurare le nostre forze, urlando tutta la rabbia del debole contro un dio sordo e spietato.

Lo vidi, lontano e al largo, nel profondo ruggito del mare. Un dio selvaggio, che non aveva neanche la necessità di dimostrare di esistere, tanto se ne fotteva di noi e del nostro gracchiare.

Più tardi, molto a lungo, nel letto, la risacca inondò la mia mente. Nel sonno disturbato i miei amici erano gabbiani che giostravano nel vento, con alte strida. 

Pensai che erano forti, a modo loro, e fragili: erano liberi.


Anche questa volta l’ho mancata. 

Mi sono preparato da bere, ho dato fondo al rimpianto e, alla fine, ho spento la luce, cadendo, sconfitto, su un letto di ricordi.

Prima di perdere coscienza ho sognato, nel centro del mare in tempesta, il biancheggiare di ali. 

Ho salutato dalla riva intorpidita dall’alcol e gli ho gridato che erano proprio come li ricordavo.

venerdì 12 marzo 2021

ALBERTOSORDI

Sei entrato con il tuo accento ciociaro e la voce baritonale da imbonitore alla Alberto Sordi, a vendermi un pennarello indelebile e un bloc notes.

Alle mie proteste di diniego, il tuo sguardo, sdrucito come i tuoi vestiti: 

Non disturbo nessuno, non faccio rumore -

Ti ho elargito spiccioli di comprensione colpevole.

Hai insistito nel lasciarmi il pennarello “di grande qualità” hai sottolineato “affidabile, come me”.

Mi hai confessato, in tono professionale, che ti trovi in un momento di difficoltà.

Sembrava quasi di sentire lo speaker della borsa che descrive un ribasso azionario.

Ho annuito, compreso, quasi fossimo due investitori che dissertano del loro portafoglio di investimenti.

Dopo, ho dovuto bere forte, per dimenticarti, per dimenticarmi.

Sono stanco di vedere persone come te, stanco di leggere quella pacata disperazione, quegli occhi miti e sperduti, che cercano di illuderti in un futuro migliore. 

E’ solo un momento di passaggio, domani sarà meglio -

Sono stanco di lasciare monetine nelle mani di un altro che ha le mie stesse mani, la stessa faccia.

Sei entrato, come uno dei tanti. Sapevo già quello che chiedevi, sapevi già le mie obiezioni.

Allora, perché rimani? Perché inciampo sulla tastiera, a ricordarti con rabbia?

Albertosordi, scritto tutto attaccato, ho paura che la tua immagine si rifletta nella mia, e, forse, ne ho un oscuro presentimento. 

Sei il selciato sconnesso del vicolo, sei il lamento dell’ubriaco accovacciato per terra, la saracinesca del bar che sta chiudendo, la puttana che ti chiama, senza speranza.

Sei tutti i ricordi che volevo dimenticare, e ritornano, con un timido sorriso di scuse.

Sei solo un accidente di passaggio. Domani andrà meglio.


MEZZAPORZIONE

Mezzaporzione arrivò come uno dei tanti lavapiatti da quell’intrigo subdolo di vicoli sporchi e depravati che tanto piacciono al turista in ...